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Lo sciame borderline è un dono prezioso per tutti, una guida illuminante e pratica, un riferimento imprescindibile.

Intervento di Fiore Bello su "Lo sciame borderline"

Nel libro Lo sciame borderline (Raffaello Cortina Editore, 2024), Nicolò Terminio ci offre con umiltà la sua profonda conoscenza della clinica lacaniana, della psicopatologia e del funzionamento delle istituzioni e dei gruppi che si occupano della cura di gravi disturbi di personalità.

Questo testo rappresenta senza alcun dubbio un completamento della clinica lacaniana e, allo stesso tempo, una sua moderna revisione ed interpretazione. Con il suggestivo termine sciame, l’autore descrive il funzionamento emotivo e cognitivo del paziente borderline che è caratterizzato da instabilità, incoerenza, irritabilità, disregolazione, diffusione di identità, polarizzazione degli opposti, etc. Sostanzialmente però, nel libro troviamo un lucido approfondimento del trauma, della disforia e della dissociazione e riusciamo a capire il ruolo che questi fenomeni ricoprono nella vita delle persone con funzionamento borderline di personalità.

Proverò ad intrecciare le parole di Terminio con la mia esperienza clinica immaginando un dialogo volto al confronto e all’integrazione del sapere clinico e delle prassi di cura.

Inizierò dalla fine del libro laddove Terminio afferma: “I pazienti – soprattutto quelli borderline – non vogliono le nostre risposte, ma desiderano che gli rispondiamo […] vogliono vedere come partoriamo nel vivo della relazione le risposte che gli diamo. […] Vogliono il nostro “no”, non quello del regolamento […] Sentono che gli stiamo rispondendo se riusciamo a trasmettergli come la relazione che abbiamo instaurato con loro sia la causa della nostra risposta. Nella clinica borderline la nostra risposta deve configurarsi come effetto del nostro co-esserci” (Terminio, 2024, pp. 283-284).

Quindi, la nostra parola chiave è Relazione anche se quella che il paziente borderline cerca e a volte impone è caratterizzata da turbolenza, emozioni contrastanti e vissuti drammatici.

Secondo l’autore, il borderline non ha una struttura, non ha potuto scrivere una vera trama, è solo sciame. I suoi significanti sono vuoti, angoscianti, terrificanti e, nonostante questo, cerca un rapporto, è affamato di relazioni che tende alternativamente a idealizzare, svalutare, attaccare e distruggere. Poi magari prova a ripararle per distruggerle nuovamente al primo segnale di indisponibilità, distrazione, distacco dell’Altro che lui vive come trascuratezza, abbandono o minaccia. Rossi Monti (2012, p. 43) ci ricorda che la disforia del paziente borderline “[…] si trasforma in rabbia tutte le volte che può essere orientata verso uno specifico oggetto individuato come fonte e la causa del proprio dolore”. Il borderline segue le regole di un triangolo drammatico (Karpman, 1968) ai cui vertici si trovano i tre possibili ruoli ricoperti dai due membri della relazione: Salvatore, Persecutore o Vittima.

Il triangolo drammatico, secondo Ivaldi (2004, p. 111) è “[…] un modo di concettualizzare un funzionamento mentale, una rappresentazione di alcune modalità di mettersi in relazione con l’altro, ma anche e soprattutto uno strumento terapeutico potente, che permette di lavorare sulla relazione terapeutica, fin dalle prime battute di una terapia, ovvero fin dall’invio”. Correale (2006) all’interno della triade disperante del borderline inserisce il trauma, la ripetizione del trauma e l’esperienza dissociativa. Cancrini (2006, p. 17) nell’Oceano borderline individua l’alternanza di due “[…] rappresentazioni del Sé: quella trionfante dell’onnipotenza e quella dolorosa e umiliante dell’impotenza. Ciò che è davvero caratteristico del funzionamento borderline, è l’oscillazione fra questi stati d’animo opposti e fra i loro correlati affettivi”.

 

 

Clarkin, Yeomans e Kernberg (2000, p. 5), riconoscono nell’organizzazione borderline di personalità (Terminio preferisce il termine funzionamento) tre caratteristiche “[…] psicostrutturali: (a) la sindrome della diffusione di identità, (b) la dipendenza da meccanismi di difesa primitivi centrati sulla scissione e (c) il generale mantenimento dell’esame di realtà”. Per quanto riguarda il trattamento, gli autori propongono uno specifico modello definito psicoterapia basata sul transfert (TFP) il cui concetto di base è che la patologia del paziente sia “[…] una ripetizione inconscia del qui-e-ora delle relazioni patogene interiorizzate provenienti dal passato. I conflitti inconsci del passato, che sono impressi nella psiche del paziente come modelli relazionali interiorizzati, sono simbolicamente ricreati ripetutamente ed esperiti come una realtà attuale” (ivi, p. 15).

“Da un punto di vista pratico, focalizzarsi sul transfert del paziente richiede che il terapeuta si domandi costantemente: perché il paziente mi sta dicendo questo in questo preciso momento? Come mi sta vedendo il paziente? Come mi sta trattando il paziente? Cosa mi sta facendo il paziente? Queste domande richiedono che il terapeuta si occupi dei propri controtransfert, delle proprie risposte interne al paziente e dell’impatto dell’uso di meccanismi di difesa primitivi da parte del paziente, specialmente dell’identificazione proiettiva” (ivi, p. 23).

Ma perché il borderline (o borderless?) conosce e ripropone solo relazioni senza confini?

“Ciò che noi siamo è innanzitutto ciò che noi siamo stati per l’Altro. L’origine psichica dell’essere umano è nella mente dell’Altro” (Terminio, 2024, p. 251). Nella figura del terapeuta cerca la verifica delle sue prime esperienze con l’Altro, “[…] un Altro che invece di essere stato dolce e affettuoso è stato abusante o disperante e allarmante o ‘semplicemente’ trascurante e disorganizzato” (ivi, p. 252).

Nel volto, nel corpo, nelle emozioni e nelle parole del terapeuta, il borderline cerca inconsciamente una relazione di attaccamento rassicurante (ricordiamoci che il sistema d’attaccamento viene normalmente attivato dalla situazione di separazione e di riunione) dal momento che con la propria figura di attaccamento ha condiviso un’esperienza che interferiva con tale sistema, che Main ed Hesse (1992) hanno individuato nella paura. Secondo questi autori all’origine dell’attaccamento D si trova una figura di attaccamento spaventante, che diviene per il bambino allo stesso tempo fonte di conforto e di allarme, evocando contemporaneamente risposte intrinsecamente contraddittorie, come avvicinamento e fuga. Ciò comporta il collasso delle strategie comportamentali e il bambino manifesta movimenti ed espressioni fuori luogo, interrotti e/o incompleti.

Al deficit metacognitivo dei genitori si aggiungono altri elementi rilevabili dall’osservazione di questi durante la Strange Situation: la mimica delle madri di bambini D suggerisce un loro assorbimento in qualche esperienza dolorosa del passato (lutto o trauma irrisolto), con conseguente estraneamento da quanto accade intorno a loro. Una sorta di trance spontanea generata dall’immersione in un doloroso mondo interiore e personale, difficilmente condivisibile da altri adulti e tanto meno dal bambino. Per spiegare l’associazione fra lutto o trauma irrisolto nel genitore e attaccamento D nel bambino, Main ed Hesse (1992) ipotizzano che il ricordo del trauma non risolto tenda ad affiorare alla coscienza in modo compulsivo, frammentario e imprevedibile. Se ciò accade mentre la FdA sta accudendo un bambino piccolo, il suo volto sarà attraversato da espressioni di paura che a loro volta produrranno spavento nel bambino. Main ed Hesse definiscono questo comportamento materno come spaventato e/o spaventante. Spaventato perché è espressione dell’assorbimento della persona in memorie dolorose irrisolte; spaventante perché il bambino coglie la paura latente nella madre e reagisce spaventandosi a sua volta.

 

 

 

“L’inibizione della funzione riflessiva è dunque il meccanismo di difesa del borderline per prendere le distanze dall’eccesso di Reale causato da un Altro traumatico […] Le impronte del trauma sono immagazzinate […] sotto forma di sensazioni fisiche che vengono avvertite come minacce terrorizzanti che […] non rimandano però a momenti del passato, ma solo al momento in cui le si sta vivendo nel presente (ivi, pp. 252-253).

“La stabile instabilità del borderline dipende dall’assenza di un ancoraggio nella possibilità interpretativa delle intenzioni dell’Altro. Nel borderline il deficit dello schema interpretativo-relazionale produce l’instabilità e le oscillazioni che riguardano la sfera dell’identità, della regolazione emotiva e delle capacità relazionali. Questa precarietà riflessiva del borderline non va vista soltanto come una mancata maturazione di una funzione psichica, ma anche come un effetto e una risposta inconscia del soggetto al trauma dell’Altro” (ivi, p. 254).

Nel paziente borderline, a causa del deficit metacognitivo e di Teoria della Mente, “[…] i pensieri e le parole non sono esperiti come mezzi per codificare e veicolare significati, ma come realizzazioni concrete di seduzione, aggressione, o manipolazione. Per questo, gli stessi propri pensieri possono da soli attivare potenti emozioni di paura, o di disgusto, o di collera, o di orgogliosa esaltazione” (Liotti, 2001, p. 139). Quindi, “l’Altro del borderline non solo può essere senza trama (deficit metacognitivo), ma con il suo funzionamento può addirittura costituire la principale fonte di perturbazione del soggetto. […] In questi casi non solo l’Altro non dà al soggetto una bussola per decodificare e regolare la propria condizione emotiva, ma sarà addirittura la confusione dell’Altro a perturbare la base emotiva del soggetto” (Terminio, 2024, p. 104).

 

La cura

“La cura permette di passare dallo sciame alla struttura. È la cura che produce la strutturazione della caoticità” (ivi, p. 13). “La struttura è un assemblaggio di elementi che segue un filo logico, lo sciame invece mostra un movimento di elementi che non sembrano avere una bussola, e non sembrano avere una bussola perché la stanno ancora cercando” (ivi, p. 9).

Nella clinica del vuoto (borderline), a differenza della clinica della mancanza (nevrosi), l’interpretazione del sintomo non produce effetti perché “[…] il sintomo non è un messaggio che veicola un desiderio inconscio rimosso, ma si configura semmai come una forma di godimento sregolato che per potersi stabilizzare, prima ancora di una interpretazione, richiede l’instaurazione di una relazione intersoggettiva. […] Di fronte a sintomi che mostrano una notevole refrattarietà al Simbolico, ciò che fa veramente la differenza, soprattutto nelle fasi iniziali, è la relazione terapeutica, che deve essere costruita all’insegna della fiducia” (ivi, pp. 124-125). Alla fiducia aggiungerei pazienza, contenimento emotivo, empatia ed attesa perché il borderline può ripresentarsi anche solo per ricominciare il suo ciclo con un Altro che però non si è spaventato e non spaventa. E se l’Altro, in questo caso il terapeuta, riesce a transitare “[…] attraverso le lacerazioni di una vita è possibile ridare senso alle parole del borderline. Uno dei compiti più preziosi del trattamento della clinica del borderline consiste nell’attivare una trama possibile entro cui circoscrivere l’eccedenza dell’area traumatica. Si tratta di un passaggio terapeutico molto delicato perché presuppone la costruzione di un’alleanza tra paziente e terapeuta” (ivi, p. 256).

I fattori che incidono sulla costruzione di un’alleanza terapeutica riguardano sia il paziente sia il terapeuta.

Per quanto riguarda quest’ultimo, troviamo “La capacità di esplorare temi interpersonali, un elevato livello di metacognizione, la tendenza a favorire l’espressione di emozioni e sentimenti in un’atmosfera di sostegno e di attivo incoraggiamento, la capacità di assumere un ruolo collaborativo nel dialogo col paziente al fine di perseguire insieme obiettivi specifici, la genuinità dell’interesse per l’esperienza del paziente, l’accuratezza ma anche una certa parsimonia delle interpretazioni. […] Viceversa, ostacolano la costruzione e il mantenimento dell’alleanza l’autoreferenzialità del terapeuta, la tendenza a distrarsi quando il paziente parla, lo scarso coinvolgimento emotivo nello scambio clinico, la sfiducia nelle proprie capacità di aiutare il paziente, la tendenza a criticarlo o colpevolizzarlo, l’uso improprio dell’autosvelamento o del silenzio e l’uso eccessivo di interpretazioni di transfert" (Monticelli, 2014, p. 58).

 

 

Nel trattamento del paziente borderline, occorre prendersi cura non solo dei contenuti, ma innanzitutto del contenitore, infatti “[…] dobbiamo partire dai problemi generati dall’umore disforico e dalla dissociazione […] che costituiscono il contenitore entro cui avviene tale esplorazione e allora bisogna intervenire per fare in modo che i contenuti non vengano dispersi o amplificati dalla logica dello sciame. […] Per ripristinare il funzionamento del Simbolico e per regolare lo sciame emotivo, l’obiettivo prioritario è quello di far ritornare il paziente sugli episodi problematici o sugli eventi traumatici riconnettendo gli anelli di una catena” (Terminio, 2024, p. 265).

A tale proposito, il modello elaborato da Marsha Linehan (2001) che si basa sull’idea di un sistema di regolazione dell’esperienza emotiva, propone un’accurata analisi della catena comportamentale. Liotti e Farina (2011, p. 54-55), insistendo sul condurre il discorso del paziente verso le narrazioni autobiografiche episodiche ritengono che “[…] gli stati dell’io non integrati sono caratterizzati da atteggiamenti e rappresentazioni di sé divergenti, che non riescono praticamente mai ad avere accesso simultaneo alla coscienza dove le operazioni metacognitive potrebbero permettere la costruzione di strutture di significato capaci di creare una forma di coesione se non di coerenza fra loro”. La memoria episodica o memoria dei fatti concerne informazioni collocate nel tempo e nello spazio e riguarda la narrazione di eventi che hanno un inizio e una fine precisi (cosa, dove, quando). Nella memoria semantica o memoria delle parole si immagazzinano la conoscenza generale, i significati e i simboli e dalle relazioni che si creano tra di loro; i suoi significati generali non sono immediatamente collegati al ricordo di episodi specifici. Insieme, la memoria semantica e quella episodica costituiscono la conoscenza esplicita, caratterizzata da tutto ciò che è immediatamente conoscibile per l’individuo. 

Anche nel gruppo, il paziente borderline può portare parti aggressive e disforiche e presentare sintomi di compartimentazione (distacco, amnesie lacunari) e somatoformi (sintomi da conversione, sintomi da dolore psicogeno, somatizzazioni) soprattutto quando percepisce la delusione delle sue aspettative perché è sempre alla ricerca di “[…] altri che debbano riflettere il suo vissuto più intimo e offrigli un rispecchiamento emotivo” (Terminio, 2024, p. 271). Secondo Liotti e Farina (2011, p. 54), “[…] a volte i sintomi somatoformi segnalano la transizione da uno stato dell’io all’altro oppure la compresenza simultanea, alle soglie della coscienza, dei due stati non integrati”.

È molto forte la propensione del borderline nel gruppo a privilegiare relazioni di coppia (con il terapeuta o con un altro membro) mostrando anche qui atteggiamenti che oscillano rapidamente tra i poli dell’idealizzazione e della svalutazione. Il terapeuta deve porre molta attenzione a non immaginare che debba colmare “[…] la mancanza dell’Altro ed abdicare al suo vero compito facendolo dipendere dalla gratificazione di sentirsi speciale per il paziente. […] Per non fallire, è necessario recuperare la parte di noi che ama il nostro lavoro e non la parte di noi che domanda di esser amata attraverso questo lavoro. […] Dobbiamo accettare noi per primi la mancanza per poter consentire al paziente di fare della sua mancanza qualcosa di nuovo. È in questo passaggio verso l’accettazione della mancanza che la nostra predisposizione fantasmatica, che noi operatori possiamo facilmente far scattare di fronte all’urgenza e alla turbolenza del paziente, può trasformarsi in un modo empatico di capirlo e aiutarlo” (Terminio, 2024, p. 276).

 

 

 

Il paziente borderline fiuta il clima emotivo del gruppo già dalla sala d’attesa ed appena entra in stanza di terapia, cerca e coglie le emozioni nel viso degli altri e soprattutto in quello del terapeuta (Searles nel suo libro sul paziente borderline del 1988 dedicava un intero capitolo al ruolo delle espressioni del volto dell’analista). Mi viene in mente un paziente che iniziò la sua prima seduta di psicoterapia di gruppo indossando una mascherina (molto prima del Covid-19) e per molte sedute quando entrava nella stanza affermava: “oggi il dottore ha un viso stanco, oggi il dottore è arrabbiato, oggi il dottore è annoiato, sarà stanco di noi? Vediamo come sta oggi il nostro dottore, cerchiamo di non farlo arrabbiare troppo. È abbronzato, è pallido, è sciupato…”. Così facendo, non solo imponeva il tema al gruppo, ma metteva alla prova anche la mia capacità di tenuta emotiva. Non ho mai risposto in modo simmetrico, anche quando ero stanco ed irritato, anzi ho sempre assecondato e talvolta ho persino spiegato con estrema tranquillità come mi sentivo in quel momento. Penso che anche questa modalità possa essere trasformativa perché “[…] il borderline non si accontenta di conoscere l’operatore nella sua professionalità, ha bisogno di capire la sua affidabilità in quanto persona. Solo se il borderline comprende l’umanità dell’operatore potrà riporre fiducia nel suo operato professionale” (ivi, p. 278).

Il borderline è anche molto sensibile al contesto e al setting, infatti coglie e reagisce al volo a qualsiasi cambiamento, figuriamoci se svolgiamo la seduta in una stanza diversa dalla solita!

Una volta, eravamo all’ultima seduta prima delle vacanze natalizie, fui costretto a cambiare stanza perché gli operai non avevano terminato di imbiancare quella solita. Tutto il gruppo ne risentì e Giovanni ne approfittò per inveire contro le istituzioni che, a suo dire, non erano capaci di prendersi cura dei loro pazienti. Con difficoltà riuscimmo a capire che l’eccessiva rabbia di Giovanni scaturiva dal fatto che l’indomani avrebbe dovuto restituire la stanza al fratello gemello che tornava dagli Stati Uniti. Nonostante il dettagliato lavoro terapeutico su questo episodio avesse stemperato gli umori, a seduta ormai chiusa Giovanni comunicò che avrebbe abbandonato la terapia; pochi giorni dopo però scrisse una mail di scuse al gruppo confessando che la sua era stata una “rabbia per procura”. In famiglia si sentiva sempre in secondo piano rispetto al fratello e l’episodio della stanza era una conferma. “Il borderline dovrà infatti riabilitare la sua funzione riflessiva per restituire una trama di senso al Reale pulsionale che ha caratterizzato il suo sviluppo traumatico: deve transitare dallo sciame alla struttura, dal trauma alla trama. L’operatore che incontra il borderline deve essere disposto a fare il percorso inverso transitando dalla trama fantasmatica al trauma del Reale, dalla struttura dell’inconscio rimosso allo sciame emotivo, dal linguaggio alla lalangue” (ivi, p. 280).

 

Il gruppo di lavoro

Nella loro dimensione di distacco, vuoto ed assenza di desiderio, generalmente i pazienti psicotici fanno sentire l’operatore più capace e sicuro, mentre quelli borderline alterano e ribaltano continuamente queste certezze arrivando a metterlo spesso con le spalle al muro (impotenza). Se vien meno la capacità di dare e costruire un senso al turbinio emotivo destabilizzante che il paziente borderline porta nella relazione di cura, nei contesti e nel rapporto con gli altri utenti di un servizio, rischiamo il suo drop out. E ciò conferma non solo le convinzioni patogene (Weiss e Sampson, 1999) dei pazienti borderline ma anche il loro sentirsi fuori posto e non compresi, accolti e sostenuti dall’Altro.

Per tentare di domare e non essere destabilizzati da questo turbinio emotivo, a volte si può commettere l’errore di sopravvalutare il potere (sanzionatorio e normativo) della cura farmacologica.

Anch’io sono caduto in questa trappola, in un estenuante gioco di potere con un giovane paziente borderline che ho costretto, in accordo con l’équipe inviante e quella del Centro Diurno, a sottoporsi a terapia iniettiva antipsicotica. Impulsività e disregolazione emotiva non risultarono affatto modificate dalla terapia farmacologica, anzi il paziente si lamentava di esser rallentato ed era più irritabile del solito perché le sue prestazioni sessuali risultavano insoddisfacenti.

Ho capito che dovevo tentare un’altra strada e per questo motivo ho “patteggiato” con la mia équipe un periodo di sei mesi senza obbligare il paziente ad eseguire la terapia farmacologica.

Qualcuno degli operatori restava scettico e il paziente, seppur sollevato, si mostrò molto sorpreso e titubante tanto da affermare: “e come facciamo senza i farmaci? È sicuro che posso scegliere se e quando prenderli e voi non me li imporrete più?” Da quel momento si sviluppò una nuova possibilità relazionale che mi vedeva come interlocutore principale e come oggetto continuo di richieste, attenzione e proteste.

Al ritorno da una settimana di ferie, trovai un disegno osceno sulla porta della mia stanza che provocò una divisione dell’équipe: alcuni operatori erano divertiti mentre altri chiedevano con fermezza l’espulsione del paziente oppure il ripristino delle precedenti condizioni di cura. Può accadere che “A volte il funzionamento gruppale di un’équipe metta in scena lo stesso funzionamento del borderline. Diventa allora fondamentale la rielaborazione che un’équipe può compiere dei vissuti turbolenti che vengono suscitati dall’incontro con i pazienti borderline” (ivi, p. 259). Quel gesto che sembrava una provocazione in realtà si inseriva in una protesta di attaccamento (Liotti, 2001) e parlandone con il paziente, ne ebbi conferma: “Mi deve scusare, ma sentivo la sua mancanza ed ero arrabbiato perché temevo che non tornasse”.

 

Bibliografia

Cancrini L., L’oceano borderline. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2006.

Clarkin J.F., Yeomans F.E., Kernberg O.F., Psicoterapia delle personalità borderline. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2000.

Correale A., Area traumatica e campo istituzionale. Borla, Roma, 2006.

Ivaldi A., “Il triangolo drammatico: da strumento descrittivo a strumento terapeutico”, Cognitivismo clinico (2004) 1, 2, 108-123.

Karpman S.B. (1968), “Fairy tales and script drama analysis”, Transactional Analysis Bullettin 7, pp. 39-43.

Linehan M., Trattamento cognitivo-comportamentale del disturbo borderline. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2001.

Liotti G., Le opere della coscienza. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2001.

Liotti G., Farina B., Sviluppi traumatici. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2001.

Main M., Hesse E. (1992), Attaccamento disorganizzato/disorientato nell'infanzia e stati mentali alterati nei genitori. In: Ammaniti M. e Stern D. (a cura di), Attaccamento e psicoanalisi. Laterza, Roma, 2003.

Monticelli F., Relazione terapeutica e alleanza terapeutica. In Liotti G. e Monticelli F., Teoria e clinica dell’alleanza terapeutica. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2014.

Rossi Monti M., Borderline: il dramma della disforia. In Rossi Monti, M. (cura di), Psicopatologia del presente. Crisi della nosografia e nuove forme della clinica. Franco Angeli, Milano, 2012.

Searles, H.S., Il paziente borderline. Bollati Boringhieri, Torino, 1988.

Terminio N., Lo sciame borderline. Trauma, disforia e dissociazione. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2024.

Weiss J., Sampson H., Convinzioni patogene. La scuola psicoanalitica di San Francisco. Quattroventi, Urbino, 1999.

 

*** ***

 

Questo testo di Fiore Bello riprende l’intervento tenuto in occasione della presentazione del libro “Lo sciame borderline” organizzata dalla Scuola COIRA di Roma il 18 ottobre 2024. Oltre a Fiore Bello, insieme a Nicolò Terminio, è intervenuta Francesca N. Vasta. Ha coordinato la presentazione Raffaella Girelli.

Fiore Bello è psicoterapeuta e specialista in Psicologia della Salute. Ha perfezionato la sua formazione presso il Tavistock Institute of Human Relations, l’Anna Freud Centre e una sezione della Group Analytic Society International di Londra. Lavora nel Dipartimento di Salute Mentale della ASL ROMA 2, dove promuove ed esercita attività clinica gruppale.

Francesca N. Vasta è psicoterapeuta, specialista in Psicologia Cinica, socia del Laboratorio di Gruppoanalisi (Roma). Docente Supervisore presso la Scuola Coirag di Roma. Docente presso l’Università Cattolica (Roma). Progetta ed eroga corsi di formazione sui gruppi per gli operatori sanitari della ASL Roma 1 e ASL Roma 2.

Raffaella Girelli è psicologa, psicoterapeuta, gruppoanalista. Socio del Laboratorio di Gruppoanalisi. Direttrice della Scuola COIRAG di Roma. Docente presso la Scuola di Specializzazione in Psicologia Clinica (Università “Sapienza”) di Tecniche di intervento psicologico sui gruppi. Ultima pubblicazione: Vasta, F.N., Gullo, S., & Girelli, R. (a cura di), Psicoterapia psicodinamica di gruppo e ricerca empirica. Una guida per il clinico.

  

Psicoterapeuta Torino
Nicolò Terminio, psicoterapeuta e dottore di ricerca, lavora come psicoanalista a Torino.
La pratica psicoanalitica di Nicolò è caratterizzata dal confronto costante con la ricerca scientifica più aggiornata.
Allo stesso tempo dedica una particolare attenzione alla dimensione creativa del soggetto.
I suoi ambiti clinici e di ricerca riguardano la cura dei nuovi sintomi (ansia, attacchi di panico e depressione; anoressia, bulimia e obesità; gioco d’azzardo patologico e nuove dipendenze) e in particolare la clinica borderline.

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