Il Covid-19 e la cura della mancanza
Da quando il Covid-19 è entrato nella nostra quotidianità tutti noi, sebbene ciascuno in modo diverso, abbiamo vissuto un trauma collettivo. Come ogni trauma anche il Covid-19 ha scombussolato il nostro quadro della realtà e ci ha confrontato con la dimensione perturbante della vita.
Come ogni trauma anche il Covid-19 ci spinge a riconsiderare i presupposti del nostro stare al mondo.
Questo trauma ha disorganizzato e lacerato la trama su cui erano adagiate le nostre abitudini e le nostre certezze e allo stesso tempo ci mostra che la funzione fondamentale per costruire una trama che umanizza la vita è quella della cura.
Indice
Immaginario
Per troppo tempo a livello sociale e culturale è stata sopravvalutata la trama della performance, una trama in base a cui ciascuno di noi viene convocato a dare il meglio di sé per vincere e raggiungere obiettivi socialmente accettati e incoraggiati.
Fino a qualche mese fa i personaggi di successo del mondo dello spettacolo, dello sport o del business hanno rappresentato nell’immaginario dei social, ma anche nel nostro scenario interiore, il modello con cui misuravamo, più o meno consapevolmente, il valore delle nostre vite.
Basta pensare a quanto spazio occupavano i calciatori famosi nei mezzi di comunicazione a fine febbraio e quanto rilevanza rivestono oggi gli stessi personaggi. Oggi di fronte al trauma questi riferimenti sono evaporati perché funzionano come degli idoli, come un velo immaginario che ci protegge da un confronto diretto con il Reale della vita.
Quando il trauma lacera la nostra trama abbiamo quindi occasione per accorgerci di ciò che effettivamente conta per costruire una trama, una trama vera e umanizzante e non una trama immaginaria che ci distoglie soltanto dalla presa di contatto con le questioni fondamentali del nostro stare al mondo.
Oggi, ancor più di prima, possiamo apprezzare i veri eroi e capire che sono coloro che si dedicano alla cura dell’Altro. Questo trauma collettivo, se saremo bravi a elaborarlo collettivamente, ci porterà a ricalibrare la passione per la performance investendo il meglio delle nostre risorse sulla cura dell’Altro.
Senza cura non c’è performance, il vero successo è prendersi cura della mancanza senza negarla con un successo momentaneo che ci ha fatto soltanto chiudere gli occhi sulla nostra effettiva condizione di umani. Ciò che ci umanizza è vivere nell’amore.
Cura e performance
La performance rischia di polarizzare l’attenzione degli umani troppo su se stessi, la cura invece sposta il baricentro del senso della vita nella relazione con l’Altro, nell’apertura all’Altro anziché nella chiusura sull’immagine dell’Io.
Credere nell’Io e coltivare l’individualismo è stato il messaggio sociale dominante che ha caratterizzato la cultura del narcisismo che in modo più o meno subdolo ha permeato le convinzioni e i presupposti di ciascuno di noi. Ma l’Io è un rifugio che viene sopravvalutato quando si perde la fiducia nel legame con l’Altro.
Nel momento in cui in una cultura vengono persi i grandi riferimenti ideali, allora la tentazione difensiva è quella di ritirarsi nella fortezza del proprio Io, cercando di coltivare un’indipendenza patologica che non tiene conto della nostra effettiva condizione umana. Non esiste infatti soggetto senza Altro e se si punta troppo sull’Io si corre il rischio di ridurre l’Altro a uno spettatore o a un follower.
Ma, come dicevamo, questa è una strategia difensiva che il trauma del Coronavirus ha messo in crisi perché ci ha riportato a quella condizione di inermità radicale che contrassegna la nostra venuta al mondo.
La paura della malattia e l’orizzonte della morte ci fanno sperimentare la dipendenza strutturale dall’Altro, dall’aiuto e dal riconoscimento dell’Altro. Senza l’Altro non può avvenire l’umanizzazione della nostra vita, senza un incontro con l’Altro il nostro Io diventa una fortezza vuota.
Per qualche spunto in più si veda questo video sulle tre dimensioni del trauma.
Per approfondire, tra i libri di Nicolò Terminio, si rimanda a: