
Melanconia e dolore di esistere
La distinzione tra dolore di esistere e dolore dovuto alla perdita è una questione centrale nella clinica della melanconia.
La perdita non sembra una motivazione sufficiente per il suicidio, anzi il dolore del melanconico sembra assomigliare all’insistenza di qualcosa che non va via. Ciò che induce il melanconico al suicidio non è un oggetto che ha perso.
Indice
La posizione soggettiva di “oggetto scarto”
La questione del melanconico non è collegata alla perdita dell’oggetto, ma all’impossibilità di cambiare la sua posizione soggettiva nel mondo.
Ciò da cui il melanconico non riesce a separarsi è la sua posizione soggettiva di “oggetto scarto” per l’Altro.
Forse non siamo legittimati a pensare che nel melanconico ci sia un’ostinata adesione a una prospettiva disillusa e cinica. Anzi, dire già che si tratta di una prospettiva sarebbe quasi tradirne il vissuto perché per il melanconico la sua non è una visione pessimistica della realtà ma coincide con lo stato delle cose: la sua non è una rappresentazione ma è la realtà stessa. E tutto ciò che lo allontanerebbe da questa posizione soggettiva appare soltanto come il tenue sembiante di sogni e illusioni con cui gli esseri umani si proteggono dal prendere atto della verità della loro condizione.
Per il melanconico non c’è alcuno iato tra la sua rappresentazione e il Reale: è con assoluta certezza che il melanconico crede nell’assenza di valore della vita, sembra essere questa la verità prima su cui poi eventualmente possiamo mettere qualche mano di vernice per edulcorarla o mistificarla.
Il melanconico non cerca un’altra vita, una vita migliore, una via di fuga che possa fungere da alternativa, vuole soltanto che il suo dolore di esistere finisca.
La morte non è l’ultimo espediente per dare una svolta a una vita che si vorrebbe migliore. Per il melanconico il suicidio non è sintomo di una richiesta d’aiuto verso qualcun Altro, anzi è proprio il modo per tagliare ogni forma di legame con l’Altro e dare un termine al suo dolore di esistere.
La separazione impossibile
Molto spesso succede che i tentativi di suicidio siano forme estreme per attirare l’attenzione dell’Altro che si sente assente o insensibile alla propria presenza nel mondo. In questi casi il suicidio lungi dall’essere un voler morire è piuttosto un appello rivolto al desiderio dell’Altro, estremo tentativo per risvegliare il desiderio dell’Altro e per mettere alla prova l’Altro di fronte alla questione che attanaglia la vita relazionale dei soggetti nevrotici: “puoi perdermi?”. E così nel fantasticare il giorno del proprio funerale il nevrotico sarà ancora lì a scrutare sulla scena le reazioni e i vissuti degli altri per intercettare i segnali del dolore per la sua assenza.
In questi casi allora le idee suicidarie possono configurarsi come un modo estremo per ravvivare attraverso la propria assenza le manifestazioni del desiderio dell’Altro.
Troviamo una provocazione e un appello simile anche in alcune forme di anoressia dove la strategia sintomatica consiste in una progressiva sottrazione di sé con la speranza che l’Altro si smuova e intervenga mostrando finalmente quell’angoscia per la perdita che darebbe conferma del suo desiderio.
Ora, nel discorso del melanconico questa dinamica relazionale non entra in gioco, si tratta piuttosto di farla finita con gli altri e di separarsi dall’Altro.
Non è in questione un appello verso l’Altro, ma il tentativo di uscire dalla presenza asfissiante del non senso.
Nella psicosi melanconica la separazione dal dolore di esistere sembra poter avvenire solo percorrendo quell’ultima via di fuga che coincide con il dissolvimento della vita.
Se nella nevrosi, e anche nel borderline, il tentativo di suicidio esprime un modo disperato per invocare l’attenzione dell’Altro, nella psicosi melanconica invece il suicidio si configura come la promessa più convincente per estinguere la presenza dell’Altro e l’insensatezza della vita.