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Nel gioco d’azzardo patologico osserviamo una spinta al dispendio che va contro il buon senso, ma anche contro la ricerca del piacere.

Tre stadi nel gioco d'azzardo patologico: angoscia e cura

Ci sono tre stadi nel gioco d'azzardo patologico. I pazienti, quando ormai la loro vita è quasi distrutta, ci raccontano che all'inizio giocavano per vincere. A un certo punto però la loro compulsione è diventata più forte e si è sganciata persino dall'aspettativa di vincere.

Nella fase più disperata il gioco d'azzardo patologico si impossessa del soggetto e lo riduce a un automa che muove soltanto un dito sul tasto della slot machine.

Indice

Non si gioca più per vincere

Dal racconto dei pazienti che soffrono di gioco d'azzardo patologico sappiamo che ci sono tre stadi progressivi che descrivono il decorso patologico del gioco d’azzardo.

Un primo stadio corrisponde con un “livello di piacere: giochi perché ti dà piacere”.

Un secondo stadio riguarda il tentativo di rifarsi dalle perdite di denaro, è “il livello di recupero: ho perso e cerco di recuperare”. Alcuni pazienti dicono che in questo stadio “il piacere rimane sempre”, mentre altri sottolineano che già qui “si sente di stare male più che di provare piacere”.

Infine, il terzo stadio sancisce la perdita degli ormeggi, un paziente lo descrive così:

“al 3° livello non andavo più neanche a fare la spesa. Se avevo soldi li giocavo. Anche le cose basilari non erano più importanti. So che non si vince, so che non si recupera, conosco le possibilità matematiche, nonostante ciò avevo un impulso più forte per cui giocavo lo stesso. Giocavo non per piacere né per un motivo logico, ma era più forte di me. […] Ci sono cose che non sembrano importanti, ma invece hanno innescato qualcosa”.

Un altro paziente raccontava:

“mi rendevo conto che avevo la fretta di tenermi libero. Ti passa il tempo, finché giochi stai bene poi devi pagare le conseguenze, ma rimani sempre con l’idea che poi recuperi. Non so se soldi o qualcos’altro”.

In quest’ultimo stadio la vita del giocatore d’azzardo è colonizzata da una sfida con l’impossibile:

“pensa al fatto che il giocatore gioca con l’impossibile: sai che è difficile vincere però giochi lo stesso, i biglietti vincenti sono pochi”.

Nel terzo stadio la posta in gioco non è più il denaro, non si gioca più per vincere. Qui il gioco d’azzardo lascia emergere un rapporto con il denaro che va al di là della dialettica simbolica del dono e dello scambio.

Il paziente GAP non è più attratto neanche dalla lotta-scambio che caratterizza “il tempodenaro anale” [Cfr. E. Fachinelli, “Sul tempodenaro anale”, in Il bambino dalle uova d’oro. Brevi scritti con testi di Freud, Reich, Benjamin e Rose Thé, Feltrinelli, Milano 1974, pp. 30-51].

Non è più in gioco un’alternanza tra il trattenere e il rilasciare, non si tratta più di puntare al possesso del denaro, viene semmai esaltato un dispendio improduttivo che rimanda alla dépense di batailliana memoria [Cfr. S. Sabbatini, “Lacan e il denaro. Una prima ricognizione”, Giornale storico di Psicologia e letteratura, Numero monografico su “Psicologia e denaro”, 2008, vol. 7; M.G. Turri, Gli dei del capitalismo. Teologia economica nell’età dell’incertezza, Mimesis, Milano-Udine 2014].

Come osservava un paziente:

“non giochiamo per vincere, altrimenti non giocheremmo più, basterebbe una volta alla settimana. Quando sto giocando, non mi interessa se la macchinetta ha pagato poco prima o no, gioco e basta! Fino alla nausea. Poi magari decido di cambiare macchinetta e arriva uno dove stavo prima e vince. Non mi incavolo nemmeno”.

E poi un altro paziente aggiunge:

“a tutti capita questo, è il sistema, poi tu lo noti... quando vai via, quando hai finito i soldi! Con il gioco si perde sempre! Le macchinette sono state inventate per farti perdere! Noi notiamo di più quando ci capita il contrario, quando la macchinetta ci paga! Poi ci spostiamo e l’altra non ci paga più! I non giocatori se ne vanno quando la macchinetta paga, noi abbiamo un problema!”.

 

La cura del gioco d'azzardo patologico

Il GAP si nutre di una spinta al dispendio che va contro il buon senso, ma anche contro la ricerca del piacere. L’assurdità di questo dispendio può essere compresa solo ripercorrendo la storia del soggetto.

Durante una cura è importante trovare il punto di innesco di questa spinta alla perdita che si configura come un fort senza da [P. Gottardis, L’azzardo del gioco. Una lettura per i giocatori e le loro famiglie, Di Girolamo, Trapani 2010].

Nel corso di una cura va indubbiamente regolato un primo livello del problema che nasce dal rapporto con la slot machine. Poi però va subito aperto il capitolo che riguarda la fragilità e la sofferenza che ha reso le persone vulnerabili al gioco compulsivo.

Quando il gioco d’azzardo colonizza la vita di una persona il comportamento compulsivo diventa automatico, è ormai sciolto da ogni legame con una causa originaria.

È come se ci si ritrovasse a girare sopra una giostra dimenticandosi perché si era saliti. Da questo punto di vista il GAP presenta le stesse caratteristiche degli altri nuovi sintomi dove osserviamo che:

  1. il comportamento compulsivo prevale sul valore metaforico del sintomo;
  2. il disturbo si manifesta come un taglio rispetto a ogni rapporto intersoggettivo e prevale il rapporto esclusivo con l’oggetto;
  3. la pratica ermeneutica dell’interpretazione risulta inefficace perché il GAP non è ancora un sintomo che lascia parlare il soggetto dell’inconscio.

Sin dall’inizio della cura bisognerà allora chiedersi:

com’era la persona prima di giocare?

Sebbene la macchinetta trasformi le persone in peggio, per i pazienti GAP è molto più difficile parlare di quelle condizioni soggettive che hanno preparato la strada verso il gioco compulsivo.

Nella nostra comunità terapeutica avevamo notato che il contesto residenziale e il campo gruppale del trattamento possono favorire una maggiore permeabilità del GAP a un discorso che non sia soltanto ortopedico.

In comunità c’è una maggiore possibilità di interrogarsi su ciò che il GAP esprime. Il contenimento quotidiano del trattamento in istituzione riduce le preoccupazioni sui rischi di una ricaduta e la presenza di altri pazienti con lo stesso disturbo sollecita il confronto sulle modalità comuni della compulsione. Queste sono delle premesse fondamentali per poter installare un discorso che lasci emergere le tracce singolari dell’inconscio.

Il GAP non sarà più soltanto una forma di agito che surclassa il valore del pensato, ma potrà diventare l’occasione per iniziare a rivedere la propria posizione relazionale rispetto all’Altro e ai propri fallimenti.

Per qualche spunto in più guarda questo video sul libro Gioco e realtà di Donald Winnicott: 


 

Competenza fallica, angoscia e desiderio

All’inizio del GAP c’è sempre una caduta troppo rovinosa della propria competenza “fallica”, una caduta che fa riemergere un’angoscia mai del tutto sopita: è l’angoscia causata dal rapporto con ciò che eccede la misura fallica.

È in questo frangente che la macchinetta si configura come un partner che non pone obiezioni, la slot machine diventa un rifugio dalle pressioni angoscianti del mondo esterno. Quando la propria competenza fallica entra in crisi, la macchinetta compare come il partner che promette una ricompensa, distogliendo al tempo stesso l’attenzione dal problema che attanaglia la vita con l’angoscia.

Durante una cura la chiarificazione di questo momento di angoscia che ha segnato l’esordio del GAP consente al paziente di recuperare non soltanto le coordinate di innesco del proprio disturbo, ma anche le tematiche principali che si sono ripetute per un’intera vita.

Il primo tema che si ripete attraverso il GAP riguarda il rapporto del soggetto con l’Altro, dove il soggetto ha cercato di scansare la questione del desiderio.

Sarà proprio in questi passaggi della cura che diventerà più chiaro perché un paziente può dire che “la macchinetta non spacca, la donna sì”. Sarà questo il punto da dove ripartire per interrogare il proprio rapporto con l’alterità ingovernabile del desiderio femminile. Ma adesso anche la macchinetta potrà esser vista in tutti i suoi lati:

se all’esordio del GAP la slot machine si configurava come un palliativo per la sensazione di inaffidabilità dell’Altro, nella sua evoluzione finale rappresenta l’emblema di ciò contro cui è impossibile vincere.

Bisogna inoltre considerare che la macchinetta non è soltanto un palliativo per le crisi e l’angoscia.

La macchinetta può assumere la forma del diversivo rispetto a una quotidianità che non è abitata dall’eccedenza del desiderio, il brivido del gioco è infatti un modo che la persona può trovare per ravvivare la propria monotonia esistentiva.

La slot machine è un mezzo per tingere di colore una vita in bianco e nero, una vita che non si saprebbe colorare in altre maniere.

Anche qui in realtà è in gioco una sensazione di inadeguatezza fallica nel potersi godere in prima persona gli eccessi della vita. Con la macchinetta è tutto più facile perché la possibilità di provare quel brivido che ti porta via viene delegata a un dispositivo tecnologico.

Durante una cura la funzione della slot machine può essere allora collegata a una modalità più generale di gestire il proprio rapporto con l’angoscia e con il Reale di cui l’angoscia si fa segnale.

Per qualche spunto in più guarda questo video sulle due anime del desiderio:


 

Il tempo del Reale

La macchinetta svolge sia una funzione protettrice dal Reale sia una funzione evocatrice.

La macchinetta assume questo ruolo, nella vita di una persona, grazie alla gestione del tempo e del denaro.

Osserviamo una prima forma di esperienza temporale dove il paziente si sente immerso in un flusso che lo distoglie da ogni forma di attenzione sul mondo esterno, è un’esperienza di coinvolgimento totale dove il paziente perde il collegamento tra il proprio tempo e il tempo dell’orologio.

In questo tempo il paziente è distolto e sottratto all’angoscia, è un’immersione profonda causata dall’effetto ipnotico della macchinetta. È il tempo dove il paziente si sente al riparo, perlomeno finché non finisce il denaro che è lì solo per garantire l’accesso a un’esperienza di soddisfazione. Durante questo flusso temporale il denaro sembra essere ancora un bene attraverso cui avere un altro bene.

Quando il denaro finisce il paziente ripiomba nell’angoscia e sembra convincersi che sia meglio cambiare vita. Ma subito dopo questi momenti di sconforto la compulsione al gioco spingerà il paziente verso l’ennesimo stratagemma per procurarsi del denaro e giocare ancora, per puntare ancora del denaro, non per vincere altro denaro ma per continuare a perdere.

Non è la logica del risparmio a farla da padrona, ma la logica del dispendio e dello spreco.

Il flusso temporale non punta a raggiungere l’apice della vittoria, finché si vince si continuerà a puntare. Non sarà infatti il momento della vincita a scandire il tempo del gioco, ma quello della perdita assoluta, quello della disfatta.

Il fine e la fine del flusso immersivo del gioco d’azzardo è data dall’interruzione della soddisfazione, un’interruzione che avviene attraverso una saturazione. E si tratta di una saturazione che viene paradossalmente prodotta solo con una bancarotta.

In realtà tutto questo non è un paradosso, è la logica temporale dell’inconscio che fa trovare il culmine della soddisfazione nell’inciampo.

Come scriveva Elvio Fachinelli: "il dato clinico della coazione a ripetere, su cui si fonda principalmente l’ipotesi della pulsione di morte, sembra suggerire l’esistenza di un ritmo temporale primitivo, una specie di tempo cieco ridotto a una pulsazione, a un battito periodico, ben lontano dalle sottili modulazioni della coscienza temporale [E. Fachinelli, “Sul tempodenaro anale”, in Il bambino dalle uova d’oro. Brevi scritti con testi di Freud, Reich, Benjamin e Rose Thé, cit., p. 43].

Per qualche spunto in più guarda questo video su emozioni e tempo vissuto: 


 

Per approfondire, tra i libri di Nicolò Terminio, si rimanda a:

  • A ciascuno la sua relazione. Psicoanalisi e fenomenologia nella pratica clinica (2019)
  • L'intervallo della vita. Il Reale della clinica psicoanalitica e fenomenologica (2020)

 

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Psicoterapeuta Torino
Nicolò Terminio, psicoterapeuta e dottore di ricerca, lavora come psicoanalista a Torino.
La pratica psicoanalitica di Nicolò è caratterizzata dal confronto costante con la ricerca scientifica più aggiornata.
Allo stesso tempo dedica una particolare attenzione alla dimensione creativa del soggetto.
I suoi ambiti clinici e di ricerca riguardano la cura dei nuovi sintomi (ansia, attacchi di panico e depressione; anoressia, bulimia e obesità; gioco d’azzardo patologico e nuove dipendenze) e in particolare la clinica borderline.

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