Perché si scrive?
Perché si scrive? La domanda così formulata mette subito in risalto la questione del soggetto coinvolto nella scrittura. Se facciamo attenzione alla particella si del “si scrive” siamo condotti di fronte a un secondo interrogativo racchiuso nel primo: chi o cosa si scrive?
La domanda non va quindi intesa solo nella sua accezione più immediata in base a cui ci chiediamo: “perché noi scriviamo?”.
Il soggetto della scrittura
Non pensate che queste disquisizioni sul soggetto della domanda "Perché si scrive?" sono le solite farneticazioni di uno psicoanalista che sta attento alle parole nei loro minimi dettagli e in tutte le loro sfumature. C’è sicuramente un condizionamento professionale perché l’ascolto psicoanalitico rimane sempre sul bordo tra significante e significato, rimane vicino alla dimensione significante delle parole prima ancora che abbiano acquisito un significato, “prima che al significante venga messo il sasso in bocca del significato” direbbe Carmelo Bene.
Non è però da questo condizionamento che ero partito, ma da una frase di Duccio Demetrio che mi era venuta in mente in maniera quasi istantanea.
È una frase molto semplice che secondo me costituisce una delle chiavi di lettura per cogliere la dimensione incarnata (e filosofica) di tutto il lavoro di Demetrio sull’autobiografia. In diversi passaggi dei suoi testi ribadisce che in realtà “noi siamo scritti dal silenzio”.
Ecco, questa frase ci ricorda che non siamo solo noi a scrivere ma veniamo anche scritti. Come mostra Demetrio in ogni suo libro, è soprattutto nell’atto della scrittura che emerge questa non completa coincidenza tra l’Io che scrive e quella dimensione che scrive la nostra esistenza.
Per Duccio Demetrio la pratica della scrittura espone il soggetto a un confronto con quella dimensione che disabilita ogni eventuale pretesa narcisistica dell’Io. C’è qualcosa che ci porta al di là della nostra immagine, che non ci fa coincidere con il ruolo che assumiamo nella vita di tutti i giorni. Ed è il silenzio che in modo elettivo fa presente nella nostra vita quella dimensione impersonale che smonta ogni nostra pretesa personale di coincidere con la maschera che assumiamo e in cui ci identifichiamo.
La scrittura autobiografica di cui si fa promotore Demetrio vuole far emergere quella dimensione soggettiva che non si lascia abbindolare dai sembianti e dalle identificazioni attraverso cui ci rapportiamo a noi stessi e agli altri.
Non mi concentrerò adesso sul rapporto che possiamo instaurare con il silenzio, anche se è un tema molto interessante che risulta decisivo nella pratica psicoanalitica. Me ne ero occupato in un taccuino dell’Accademia del silenzio mostrando la convergenza tra quel silenzio che ci scrive e l’esperienza dell’inconscio. Mi limito a segnalare che il silenzio dell’analista è finalizzato proprio a custodire la possibilità di esistenza di un rapporto con questa dimensione che ci scrive.
Da un punto di vista psicoanalitico potremmo dire che per Demetrio la scrittura autobiografica è un modo per preservare l’esistenza dell’inconscio, e non solo a livello individuale ma anche sul piano dei legami sociali.
In questa prospettiva è come se venissero opposti due modi di rapportarsi tra gli esseri umani: il primo è quello che dà prevalenza all’incontro tra Io che nel loro rispecchiamento finiscono spesso per illudersi di essere simili o per sentirsi invece minacciati dalla presenza di quegli altri che mettono in discussione il proprio credersi un Io.
Diversamente la seconda modalità di fare legame fa posto a dei soggetti che hanno fatto del loro incontro con il silenzio il punto di partenza per entrare in relazione.
Per qualche spunto in più si veda questo video su psicoanalisi, scrittura e autobiografia:
Per approfondire questi temi, tra i libri di Nicolò Terminio, si rimanda a: