A cosa mira il silenzio dell’analista?
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Riuscire a fare silenzio dentro di sé permette di raggiungere la predisposizione a cogliere la vita sospendendo per un attimo la traduzione dell’Altro.
Fare silenzio è una via pratica per concentrarsi sul proprio vissuto aprendosi alla possibilità di vivere la propria esperienza prima di ogni interpretazione.
Si tratta di percepire il proprio essere presenti a se stessi senza attivare in automatico l’attitudine umana di concettualizzare o romanzare l’esperienza.
Partendo da questa condizione interiore potremo vivere momento per momento ciò che siamo, ciò che siamo un attimo prima di rivestire il nostro sentirci essere con le parole.
Il vissuto soggettivo di chi ha attraversato abbandoni, traumi o abusi è spesso connotato da una sensazione di distacco da sé e da un vuoto che toglie le parole lasciando un nodo alla gola. È un nodo senza senso che non è agganciato alla storia del soggetto. L’emozione si presenta in modo travolgente ma non parla di nient’altro, non parla dell’Altro e delle eventuali delusioni che ha potuto provocare. È un’emozione silenziosa che si presenta come vuoto mentale e sussulto del corpo.
Quando questi pazienti iniziano ad attivare la loro mente e possono iniziare anche a sognare riferiscono scene di pericolo e di aggressioni dove una crudeltà senza limite e un terrore senza volto incombono ad ogni loro passo.
Sono le storie delle infanzie negate e dei percorsi smarriti dove il silenzio ci parla non della dimensione costitutiva della parola ma dell’impossibilità della parola di istituirsi come ponte tra soggetto e Altro.
L’Altro qui non è l’Altro della traduzione del linguaggio, che fa del linguaggio una dimora per l’essere del soggetto, ma è l’Altro che in maniera insensata abbandona o, nei casi più gravi, gode del soggetto sovvertendo le leggi che fondano la comunità degli umani.
In questi casi il lavoro dell’analista consiste nel portare un po’ di luce, di rischiarare il silenzio per stemperare l’eccesso di godimento con cui l’Altro ha invaso il campo del soggetto, assoggettandolo non al linguaggio ma una volontà senza senso e disumana.
La traduzione in parole della propria esperienza è una caratteristica fondamentale del metodo psicoanalitico. Si tratta di una traduzione che non esclude il silenzio, soprattutto nella cura delle nevrosi è evidente quanto la traduzione del linguaggio non sia un modo per scansare il silenzio ma la via migliore per aprire le porte a un silenzio generativo.
Nel tempo del processo creativo siamo trovati dall’evento, siamo presi dalla vita nella vita, nell’evento siamo presi alla sprovvista, non scegliamo ma siamo scelti.
Mettersi in ascolto del silenzio non vuol dire padroneggiare il silenzio ma farsi prendere dal silenzio, assumere quel silenzio come un’eterogeneità radicale rispetto a ciò che può essere detto.
Da questo punto di vista un’accademia del silenzio non è l’applicazione di un discorso di padronanza di sapere su ciò che rende insaturo ogni sapere. Accademia non implica un irrobustimento del proprio sapere, può voler dire soltanto che ci possiamo preparare con le parole per metterci in ascolto del silenzio che abita nelle parole.
È da lì che può sorgere il germe creativo per qualcosa di nuovo, per qualcosa che vada al di là delle ripetizioni che vengono indotte dalle varie sirene e seduzioni sociali o dalla rigidità del nostro fantasma inconscio.
Il transfert è un movimento verso un sapere che non si possiede.
Il soggetto cercherà allora ciò che potrebbe colmare la propria mancanza nell’Altro, ma se l’Altro è un analista troverà il silenzio, il silenzio del significante.
Per qualche spunto in più guarda questo video sul transfert come romanzo e come lettera.