Il vuoto tra parola e silenzio
Nella mia pratica clinica trovo frequentemente la necessità di un trattamento preliminare dei sintomi affinché possano diventare messaggeri della verità dell’inconscio.
La classica nevrosi freudiana non è molto frequente e quando la si incontra si configura più come un risultato della cura che come un dato di partenza.
Indice
Clinica del vuoto
Pensando alla mia esperienza (anche come supervisore in diversi servizi di cura) direi che questa è l’epoca della “clinica del vuoto” di cui parla Recalcati.
La psicopatologia del presente pone ai clinici e a tutti gli operatori la sfida di trasformare l’agito in pensato, la sfiducia e la diffidenza nella possibilità di aprirsi e affidarsi innanzitutto alla dimensione della parola, una parola che sappia diventare però occasione di legame con l’Altro.
Le forme più gravi di psicopatologia che affronto manifestano l’eclissi dell’Altro e sono espressione di vissuti traumatici che generano a loro volta un funzionamento dissociativo.
Il vuoto della clinica contemporanea va attraversato creando innanzitutto delle connessioni, delle trame per metabolizzare i traumi, delle relazioni accoglienti per ristabilire un clima di sicurezza, suoni e simboli per restituire alla vita il silenzio del trauma.
Per qualche spunto in più guarda questo video su clinica del vuoto e trattamento della famiglia:
È nell’alternanza tra parola e silenzio che si esprime la sensibilità di un analista e l’orizzonte del lavoro dell’analizzante (in analisi analizzante = paziente).
Nella cura ci sono silenzi che vanno tradotti e silenzi che vanno custoditi.
Tutto dipende dalle questioni che si affrontano perché senza alcune parole la cura non andrebbe avanti. Ci sono dei silenzi che vanno tradotti in parole, altrimenti non si crea neanche la possibilità di sentire il valore generativo del silenzio, quel silenzio che si configura come il vuoto centrale da cui sorge la creatività del soggetto.
Per qualche spunto in più guarda questo video su sintonizzazione e traduzione materna:
Tradurre e custodire il silenzio
Giusto per essere un po’ schematico, direi che all’inizio della vita c’è un silenzio che va tradotto in parole. È la dimensione che Recalcati evidenzia quando parla della trasformazione del grido in domanda.
C’è però un altro silenzio che il soggetto deve incontrare una volta che è salito sulla giostra del linguaggio. Si tratta del silenzio del significante, per dirla lacanianamente.
In questo caso il silenzio è un ingrediente fondamentale del linguaggio perché mostra che non tutti i significanti possono essere abbinati a dei significati. Carmelo Bene diceva che il significato è il sasso in bocca del significante.
Nella cura psicoanalitica, e in tutti i trattamenti che si avvalgono di uno sguardo psicoanalitico, ci sono allora dei silenzi che vanno tradotti perché segnalano un trauma-grido che impedisce la costruzione di una trama soggettiva.
Ci sono poi dei silenzi che vanno custoditi perché sebbene si configurino come traumi che perturbano la trama soggettiva permettono di introdurre qualcosa di inedito e di trovare la responsabilità e la libertà del proprio discorso.
Per qualche spunto in più guarda questo video sul perché si scrive?
Per approfondire, tra i libri di Nicolò Terminio, si rimanda a: