Forclusione e significazione
La forclusione del Nome del Padre è il meccanismo psicopatologico che spiega il mancato accesso del soggetto psicotico a una significazione condivisa. Nell'insegnamento di Lacan la forclusione del Nome del Padre indica un'alterazione del rapporto tra il soggetto e il linguaggio.
Le varie forme psicopatologiche, e la psicosi in particolar modo, mettono in luce l’intreccio soggettivo tra la nostra dimensione vivente e il dispositivo del linguaggio.
Nel caso della psicosi la forclusione indica il mancato abbinamento tra il piano del significante e quello del significato. Nella dinamica del complesso di Edipo, il Nome del Padre entra in gioco come un operatore linguistico che collega il significante e il significato in un modo che risulta connesso al common-sense.
Forclusione del Nome del Padre e disancoraggio dal common-sense sono due modi (uno psicoanalitico lacaniano e l’altro antropo-fenomenologico) per indicare la stessa compromissione dell’atto di significazione nella clinica della psicosi.
Indice
In uno dei suoi libri il filosofo Michael Dummett propone di ricondurre all’opera di Gottlob Frege la matrice comune della tradizione analitica e di quella continentale [Cfr. M. Dummett (1993), Origini della filosofia analitica, introd. di E. Picardi, Einaudi, Torino 2001].
Secondo Dummett, Frege distinguendo senso e denotazione ha aperto il cammino della filosofia verso la “svolta linguistica”, svolta che sta alla base della tradizione analitica ma che restituisce anche il tassello originario da cui ha preso le mosse la fenomenologia di Husserl.
In modo molto sintetico possiamo dire che
- la denotazione indica il rapporto tra la parola e la cosa
- il senso invece è staccato dalla cosa
- nel linguaggio c’è una produzione di senso che non è semplicemente riconducibile all’adeguazione della parola alla cosa
- la parola non è la cosa ma un segno che rimanda a un altro segno
- la parola è un segno che trova il suo senso nella connessione con altri segni
Per alcuni pazienti psicotici il livello del senso rimane forcluso e la dimensione della parola rimane relegata alla funzione denotativa.
La struttura del linguaggio nella psicosi non produce senso e verità nel rimando da un segno verso altri segni. Piuttosto, di fronte alla rete di connessioni possibili tra i segni lo psicotico sperimenta uno stato di “perplessità” o di ironia nichilista in base a cui le parole non dicono nulla o suonano come puro artificio.
Nella psicosi l’ordine semiotico dei segni viene rigidamente ricondotto a quello ontologico del mondo.
Ricordo, per esempio, un paziente psicotico che diceva: “i cattolici sono dei cannibali perché mangiano il corpo di Cristo”. Potremmo dire che lo psicotico compie un esercizio di rigore denotativo perché prende la parola alla lettera, ossia nel suo riferimento alla cosa.
Il problema nella psicosi sorge quando ci si inoltra nel campo della significazione, quando cioè si cerca di superare un uso meramente denotativo del linguaggio.
Quando studiamo il nucleo psicopatologico della psicosi ci stiamo dirigendo verso il punto di insorgenza della soggettività umana, verso quel luogo dove “l’esistenza, come lì si annuncia, non è ancora mondo” [M. Foucault (1954), Il sogno, p. 61].
Per qualche spunto in più guarda questo video sul libro Sogno ed esistenza di Binswanger:
Dalla langue alla parole
L’atto di significazione ci distingue in quanto esseri umani e ci rende dei “parlesseri”, direbbe Jacques Lacan. La questione clinica della psicosi tocca nel profondo il problema dell’antropogenesi perché evidenzia la non-ovvietà del passaggio dalla langue alla parole.
Ferdinand de Saussure ha parlato della distinzione tra la langue – cioè l’aspetto condiviso, collettivo e sociale del linguaggio – e la parole, ossia l’atto individuale che dà corpo alla langue nell’esperienza di chi parla [Cfr. F. de Saussure (1922), Corso di linguistica generale, introd. e tr. it. di T. De Mauro, Laterza, Roma-Bari 1967 (1994)].
Per qualche spunto in più guarda questo video su inconscio tra parola piena e parola vuota.
La difficoltà dello psicotico consiste nell’assumere nella propria esperienza soggettiva l’aspetto sociale e condiviso del linguaggio.
La psicosi rappresenta l’eclissi di quella funzione di mediazione capace di convertire la langue in parole.
Nei termini degli studi semiotici possiamo dire che la psicosi esprime il fallimento dell’istanza di enunciazione in quanto l’attività di enunciazione del soggetto appare sganciata e non concatenata alla dimensione sociale e condivisa del linguaggio.
Se ascoltiamo i pazienti psicotici quando ci parlano del loro rapporto con le abituali convenzioni sociali, possiamo notare quanto per loro sia impossibile fondare la propria parola su un “già detto”.
In altri casi osserviamo invece quanto il “già detto” sovrasti in modo totalizzante l’esistenza del soggetto non lasciando spazio alcuno per l’enunciazione.
Si tratta dei due estremi opposti lungo cui lo psicotico sperimenta il dramma esistenziale di chi non può attingere al fondamento del common-sense per costruire la propria parola in rapporto a quella degli altri.
Per qualche spunto in più guarda questo video su complesso di Edipo e forclusione del Nome del Padre.
Per approfondire, tra i libri di Nicolò Terminio, si rimanda a Lo sciame borderline. Trauma, disforia e dissociazione, pref. di M. Recalcati, Raffaello Cortina editore, Milano 2024.