Borderline e psicosi tra forclusione e discorso dell'Altro
Sulla base della mia esperienza clinica la depersonalizzazione e la derealizzazione di tipo psicotico è molto diversa da quella borderline.
Nel primo caso siamo di fronte a fenomeni di tipo dissociativo che sono causati dalla cosiddetta forclusione del Nome del Padre e indicano il mancato compimento del complesso di Edipo. Nel caso della clinica borderline la dissociazione è dovuta invece all’assenza di un discorso dell'Altro.
Nella psicosi c’è forclusione e presenza di un discorso dell’Altro che però a causa della forclusione diventa un Altro persecutorio.
Per esempio, nel racconto autobiografico di Marsha Linehan i vissuti di depersonalizzazione e derealizzazione non mostrano mai le caratteristiche dell’estraneazione e del sentimento di irrealtà di tipo psicotico, che vediamo invece descritti in alcuni passaggi del Diario di una schizofrenica: «L'irrealtà mi faceva soffrire di meno perché non le opponevo più alcuna resistenza. Vivevo in una vuota atmosfera di indifferente artificio; un muro invisibile ed insormontabile che mi separava da persone e da cose. […] Improvvisamente da questo mondo d’indifferenza sorgeva l’angoscia, l’angoscia dell’irrealtà. Si può dire che la mia percezione del mondo mi facesse sentire in modo più acuto la bizzarria delle cose. Nel silenzio e nell’immobilità ogni oggetto rimaneva scolpito, staccato dagli altri nel vuoto e nella luce; ed a forza di persistere così solo, sciolto da tutto quanto lo circondava, l’oggetto incominciava ad “esistere”. Esso era lì di fronte a me e mi incuteva una sorda paura, allora dicevo “la sedia si burla di me e mi canzona”» [M.A. Sechehaye (1950), Diario di una schizofrenica, pres. di C.L. Musatti, trad. it. C. Bellingardi, Giunti, Firenze, 2017 (1ª ed. 1955), p. 61].
Nel borderline non osserviamo la forclusione, che è un concetto lacaniano che va riferito al rapporto tra significante e significato. Nel borderline viene meno la trama discorsiva offerta dall’Altro, un Altro che invece di sostenere il discorso del soggetto lo espone alla dimensione del trauma.
Nella clinica borderline possiamo osservare un funzionamento metonimico che non trova pace in alcuna metafora, ma non a causa dell’assenza della metafora paterna.
Nel borderline non è in questione la metafora paterna, cioè non è sconvolto il legame tra significante e significato come invece ritroviamo nella psicosi, ma è bloccata la possibilità di aprire un discorso a partire da un significante traumatico, un S1 che non fa trama. Quindi l problema del borderline non è il rapporto tra significante e significato, ma il rimando da un S1 a un S2, cioè da un trauma a una trama.
Potremmo dire che la questione clinica della psicosi viene “prima” di quella del borderline, riguarda cioè un momento antropologico relativo al fondamento del nostro essere dei parlesseri: nella psicosi il soggetto si trova in prossimità di quel punto in cui le parole e il loro significato non hanno ancora stretto un legame, quel legame che avrebbe potuto istituire la metafora paterna.
Per qualche spunto in più sulla psicosi guarda questo video su complesso di Edipo e forclusione del Nome del Padre.
Per approfondire, tra i libri di Nicolò Terminio, si rimanda a: