Ascolto clinico ed empatia nella cura delle dipendenze patologiche
L’alleanza terapeutica e la direzione della cura richiedono una riflessione preliminare sulla costruzione del caso clinico.
Prima di avviare un percorso di cura bisogna chiarire quegli aspetti clinici che risultano indispensabili per cogliere la specificità della condizione del paziente. Si tratta di elementi necessari tanto per la comprensione della problematica clinica ed esistenziale del paziente quanto per la costruzione del progetto terapeutico.
La supervisione in un SERD
Nel corso di una supervisione con l’équipe di un SERD (Servizio per le Dipendenze Patologiche) le riflessioni compiute dagli operatori hanno messo in luce tre dimensioni essenziali nella costruzione del caso clinico:
- Il momento e le aspettative della domanda del paziente
- Il sintomo: psicopatologia, attaccamento e significato
- La relazione di cura e la vera empatia
Queste tre dimensioni si fanno presenti nella mente dell’operatore e nel lavoro d’équipe attraverso una serie di domande irrinunciabili. Sono quelle domande che fanno da filo conduttore nella pratica quotidiana del singolo operatore del SERD e nella trama intessuta dal lavoro d’équipe.
Il momento e le aspettative della domanda
Nell’incontro con il paziente bisogna innanzitutto chiedere: Cosa possiamo fare per aiutarla? / Aspettative dell’utente nei confronti di questo Servizio; Perché hai deciso di rivolgerti al SERD? Che aiuto ti aspetti da questo servizio? Quale tipo di aiuto ti aspetti da questo spazio?
Bisogna inoltre focalizzare l’attenzione sulle aspettative e gli obiettivi, cioè l’obiettivo della richiesta di presa in carico dal punto di vista dell’utente (riduzione del consumo, completa guarigione…).
È anche importante interrogarsi sulle modalità della richiesta di aiuto e dell’invio del paziente al SERD: Cosa o chi ha condizionato la richiesta aiuto? Chi ha proposto l’invio al Servizio (scelta spontanea, richiesta dell’utente su insistenza di un familiare, contatto preso direttamente da un familiare…)? Quali sono stati gli agenti/fattori che hanno indotto la persona a rivolgersi al Servizio per una prima valutazione di sussistenza o meno dello stato di dipendenza?
Risulta cruciale poter cogliere il qui e ora della domanda di aiuto: Cosa spinge il paziente al servizio in questo momento della sua vita? Quale lo stato d’animo dello stesso in quel momento? Come mai arriva qui oggi? Cosa è accaduto (evento/i significativo/i) per cui la persona chiede aiuto in questo preciso momento e non prima/dopo?
Occorre anche tenere in considerazione quali tentativi (in termini di azioni personali o coinvolgimento di altri professionisti) il paziente ha messo in atto fino ad ora per la gestione del problema. Quali sono le strategie (es. routine quotidiana, modalità comunicative, ricerca di un lavoro, percorso psicologico privato) già tentate per la risoluzione del problema? Quali funzionanti e quali meno? La finalità di queste domande è raccogliere elementi utili per orientare la definizione di un progetto di aiuto: questo permette di utilizzare le azioni virtuose individuate dal paziente per valorizzare le sue capacità e non ripetere azioni già risultate fallimentari.
Un altro aspetto riguarda il campo relazionale: Il paziente con chi ha condiviso la sua attuale condizione di dipendenza? Quali possono essere le risorse formali e informali ad oggi coinvolte o da coinvolgere per rafforzare la rete di supporto (es. familiari, amici, servizi sociali del Comune di residenza…)?
Bisogna considerare anche le aspettative rispetto al Servizio che lo accoglie e al percorso che sta intraprendendo: Come e da chi verrà assistito? Quali saranno le tempistiche del suo percorso di cura?
E, last but not least, bisogna chiedere al paziente: In che modo senti di poter contribuire a ridurre/estinguere questo tuo comportamento?
Il sintomo: psicopatologia, attaccamento e significato
Le questioni che riguardano la dimensione psicopatologica possono essere chiarite partendo innanzitutto dal problema presentato. Occorre infatti fare una descrizione del problema che conduce il paziente alla domanda di cura e come si presenta il paziente, a cui bisogna chiedere: Che cosa senti di più problematico in questo tuo comportamento?
Per una valutazione approfondita del quadro psicopatologico occorre chiedersi: Il paziente come rappresenta sé stesso e il mondo circostante? Come funziona il paziente in generale? Nel fronteggiare situazioni spiacevoli in particolare? Ed è importante anche che l’operatore si interroghi sul modo in cui descriverebbe il paziente.
Inoltre, è importante cercare di ricostruire il tipo di attaccamento vissuto dal paziente mettendo a fuoco i seguenti aspetti: Condizionamenti passati (eventi stressanti vissuti); Storia familiare; Rapporto con padre e madre; Ricordi infanzia, storia dello sviluppo psico-affettivo; Con chi vive e relazioni significative.
Il sintomo non va considerato come un mero disturbo da aggiustare, ma come un fenomeno clinico che sottende l’Organizzazione di Significato Personale del paziente. E da questo punto di vista risulta allora importante chiedersi anche quali siano stati i suoi interessi da bambino; le emozioni nei suoi ricordi. E da adulto, quale curiosità è riuscito a mantenere nella vita? Quali gli ambiti ed attività che suscitano in lui attrazione ed attenzione?
Nell’incontro con il paziente vanno anche poste alcune domande fondamentali: Descriva l’incontro con le sostanze / come, dove, quando rispetto all’uso, storia della dipendenza; Il Quando, cioè il momento del ciclo di vita in cui è esordito il problema portato; Quando e come hai iniziato l’uso di sostanze? In che modo senti di essere arrivato a sviluppare questo forte attaccamento per la sostanza? In quale periodo della vita il paziente ha iniziato a fare uso di sostanze? Quando ha iniziato a presentare il problema?
Inoltre, seguendo una prospettiva psicopatologica fenomenologico-dinamica, bisogna porre al paziente le seguenti questioni: A quale bisogno l’uso ha risposto? Secondo te qual è il motivo per cui hai iniziato ad assumere sostanze? Quale stato affettivo le sostanze hanno modulato?
La valutazione di un soggetto con problematiche di addictions deve tener conto della condizione psicopatologica preesistente, ma anche dei cambiamenti neurobiologici generati dalla sostanza di abuso. L’effetto dell’oggetto sul soggetto produce una nuova omeostasi interna per cui la sostanza diventa nel tempo parte del funzionamento; la sua mancanza genera tensione mentre la presenza riconduce al rilassamento e alla apparente normalità, pur determinando nel tempo una sempre più difficile possibilità di conservare la propria integrità psichica e la capacità di autodeterminazione.
E infine, il quadro sintomatologico deve tener conto dei condizionamenti presenti (fattori di rischio/protezione nell’ambiente in cui vive) e anche della città/paese/quartiere di provenienza del paziente e soprattutto della sua rete sociale di riferimento.
La relazione di cura e la vera empatia
Dopo il lavoro sulla domanda e il sintomo si apre la questione della relazione di cura. La relazione si configura come il presupposto per iniziare la cura e come lo strumento per rendere possibilmente trasformativi tutti gli interventi che il SERD può introdurre per andare incontro alla domanda di cura del paziente.
Quando si affronta il tema dell’alleanza terapeutica e della direzione della cura, bisogna considerare innanzitutto cosa può consentire ai pazienti che accedono al SERD di affidarsi all’operatore. Per il paziente diventa cruciale poter incontrare qualcuno che si presenti, in qualche modo, diverso da tutti gli altri che precedentemente ha conosciuto nella vita.
Si tratta di soggetti che hanno vissuto storie dilaniate da traumi, da abusi e da situazioni disumanizzanti e quindi è importante chiedersi, oltre ad ascoltare la domanda di aiuto e a interpretare la funzione della sostanza nella loro vita, oltre a comprendere la peculiarità del sintomo psicopatologico che ha organizzato la traiettoria del loro destino, oltre a tutto questo bisogna chiedersi qual è il principio relazionale che permette di incontrare queste persone aprendo una breccia, una speranza di qualcosa di diverso.
Durante la supervisione c’è stato un momento estremamente toccante in cui un operatore ha descritto il suo modo di incontrare i pazienti.
Si tratta di pazienti che stanno ancora in strada e sono sganciati da ogni riferimento sociale, molto spesso per questi pazienti l’unica speranza, la cosa migliore che possono aspettarsi dalla vita è quella di drogarsi. Con una sensibilità rara l’operatore ha illustrato così la sua apertura relazionale:
Entrare in relazione con il paziente nella mia esperienza è come mettersi davanti ad un vasto paesaggio o ad un quadro grande e complesso. Cerco di abbracciare tutto con lo sguardo, stando ben attento a non soffermarmi su piccoli particolari che poi potrebbero attrarre troppo la mia attenzione e magari farmi perdere di vista altri settori, altri luoghi, altre scene che potrebbero rivelarsi ugualmente importanti e fondamentali.
Di solito poi avviene che spaziando su tutto il paesaggio, senza nulla da cercare, a volte viene fuori un dettaglio che sembra come illuminarsi, una scena che per qualche motivo si impone sulle altre e in quel momento sia io che l’altro ci ritroviamo a guardare nella stessa direzione, a fissare lo stesso punto.
In questo momento si crea una sorta di sintonia che fotogramma dopo fotogramma fa crescere una relazione tra me e l’altro. Questa scena non deve essere persa proprio perché dà un contributo estremamente importante, devo trovare un cassetto della mente in cui riporla e custodirla, ed anche tornare a riguardarla se necessario.
Una volta che questo punto si è spento torno a scorrere tutto il quadro, aspettando con pazienza che qualche altro dettaglio si illumini e si sveli a tutti e due.
In queste parole viene esemplificato il principio che orienta l’ascolto clinico o, forse, si potrebbe dire semplicemente l’ascolto tra esseri umani. Si tratta di un ascolto libero da ogni ingombro teorico che permette la sintonizzazione intersoggettiva.
Questa modalità di ascolto consente inoltre di correggere una certa idea di empatia che purtroppo è abbastanza diffusa. L’empatia è quel fattore che, come mostrano molte ricerche in psicoterapia, condiziona gli esiti delle cure. Senza empatia, in una cura per un soggetto non si apre alcuna possibilità trasformativa.
Una relazione può dirsi però realmente empatica se non avviene la proiezione dei propri sentimenti e dei propri vissuti nel quadro che si osserva.
L’empatia non consiste dunque nel trasporre “ciò che l’altro mi suscita” sulla figura dell’altro. Affinché ci sia vera empatia non bisogna prendere sé stessi come un modello per comprendere l’altro.
Grazie al racconto dell’operatore del SERD osserviamo il rovesciamento del paradigma relazionale attraverso cui l’empatia viene intesa come un immedesimarsi, un mettersi nei panni dell’altro.
Per incontrare veramente l’altro bisogna mettere tra parentesi il proprio mondo aspettando con fiducia che qualcosa del mondo si illumini.
Bisogna essere disposti alla possibilità che qualcosa nel mondo si presenti come un trauma, un trauma che disarticola la nostra abituale visione del mondo, è in quell’istante che in una fotografia in bianco e nero inizia a emergere un colore differente, qualcosa che risulta significativo e si distingue da tutto il resto.
Questo “dettaglio”, così viene indicato dall’operatore, può emergere solo a partire da un atteggiamento che non vuole cercare nulla. Non muovere il nostro sguardo come se fosse uno zoom che si cala su un oggetto cercando di coglierne la specificità a partire da un paradigma teorico predefinito.
Si tratta piuttosto di aspettare affinché ciò che è veramente significativo emerga dal campo della nostra osservazione, occorre disporsi in un atteggiamento di accoglienza verso ciò che emerge da sé.
L’ascolto clinico che costituisce la base dell’alleanza terapeutica e della direzione della cura richiede fiducia nel lasciarsi andare, nell’abbandonarsi a quel momento in cui si sta insieme all’altro.
Questo atteggiamento è particolarmente significativo soprattutto nell’incontro con i pazienti pluri-traumatizzati, pazienti che stanno ancora in strada senza aver neanche sviluppato un balbettio di domanda da rivolgere a un Servizio di cura. Sono pazienti che non si fidano mai dell’altro e allora è importante che trovino finalmente un altro che non gli chieda niente e soprattutto che non li renda oggetto della sua volontà.
Se si segue questa modalità relazionale nulla è garantito in anticipo, ciò che emerge nell’incontro con l’altro si manifesta senza preavviso.
In questo evento-incontro è possibile fare esperienza della dimensione sacra della relazione.
L’esperienza del sacro non va a confinata nelle chiese o nell’ambito dei culti religiosi, l’esperienza del sacro è un mistero quotidiano che abita il mondo ed è il mistero a partire da cui ci si incontra perché nel vero incontro l’altro smette di essere chi abbiamo precompreso a volte con pregiudizio e inizia a emergere nella sua soggettività.
Per tal ragione l’incontro basato sulla vera empatia fa trauma: fa trauma nella trama delle nostre conoscenze prestabilite.
Ecco a cosa invita l’operatore del SERD quando sottolinea la possibilità di attendere senza nulla cercare: nel momento in cui si smette di cercare, può realizzarsi la sintonia con quella persona che forse ancora non si sente neanche paziente perché non percepisce il suo patire come la possibilità per incontrare un altro.
Il racconto dell’operatore del SERD propone anche un altro aspetto estremamente importante per la costruzione dell’alleanza terapeutica e per la conduzione della cura.
L’operatore dice che bisogna custodire quel momento di sintonia in un cassetto della mente perché nell’incontro con pazienti così gravi certi momenti, sebbene siano intensi e cruciali, possono rapidamente svanire.
Quindi nonostante l’intensità dell’incontro un paziente potrebbe non ricordarsi oppure potrebbe svalutare quel momento di verità. Allora il compito dell’operatore non è soltanto quello di accogliere certi momenti, ma anche quello di custodirli, di ricordarli e di farli presenti al paziente, perché è da lì che nasce la possibilità dell’alleanza terapeutica e la possibilità di fidarsi di un altro che con la sua presenza dà testimonianza di quel fuoco che si è acceso e che è importante non far spegnere, tanto per il paziente quanto per ciascun operatore.