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Seguendo l’insegnamento di Lacan e attraversando l’opera di Recalcati possiamo dire che la notte del Getsemani è la notte dell’Uno-tutto-solo.

Cosa vuol dire ereditare la testimonianza

La testimonianza è sempre singolare perché non riguarda l’identificazione, ma l’assunzione della singolarità del proprio Reale pulsionale.

Per assunzione intendo innanzitutto assumersi la responsabilità, soggettivare.

Telemaco e lalangue

Nel Complesso di Telemaco Recalcati scriveva che “una vita non è che questo apprendere a parlare la propria parola attraverso la parola degli altri” [M. Recalcati, Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre, Feltrinelli, Milano 2013, p. 123].

E in effetti sin da bambini impariamo a parlare ripetendo le frasi e i discorsi che sentiamo dire agli altri. Non si tratta soltanto di un percorso di apprendimento cognitivo, basta vedere la gioia di un bambino o di una bambina mentre ripete e si esercita a ripercorrere le parole che ha sentito dire ai genitori o ai fratelli. C’è una gioia infantile che mostra non soltanto quanto un soggetto si stia inserendo nel discorso dell’Altro (e quindi stia imparando a parlare) ma anche l’incidenza delle parole dell’Altro sulla possibilità di godere del linguaggio. Siamo nei paraggi di quella che Lacan denominava lalangue, un’esperienza del linguaggio che ci dice non soltanto dell’entrata del soggetto nel campo dell’Altro, ma anche il modo in cui i significanti dell’Altro si imprimono nell’esperienza emotiva del soggetto.

La questione allora non è distinguere quanto il soggetto dice con proprie parole e quanto invece ripete quelle dell’Altro. È più importante verificare se entrando nel discorso dell’Altro ciascuno di noi può imparare a dare voce alla propria singolarità. Nel giocare con le parole dell’Altro il soggetto può sperimentare una gioia e un modo di esprimersi dove genera degli stati del sé che non potrebbero esserci senza quel gioco.

Pensiero creativo

 In un documentario sul “pensiero creativo” lo scrittore statunitense Micheal Chabon viene intervistato dal neuroscienziato David Eagleman e sostiene che preoccuparsi di essere originali è una sciocchezza perché se si prova a scrivere un romanzo su un certo argomento inevitabilmente ci saranno già almeno 20 romanzi di ottima qualità e tra questi alcuni capolavori.

Non si tratta allora di distinguere quanto scriviamo noi da quello che ha scritto Tolstoj o Dostoevskij, non è possibile eliminare il nostro debito verso il discorso dell’Altro e allo stesso modo è impossibile non deviare dal percorso dell’Altro perché la nostra peculiare esperienza di vita interverrà irrimediabilmente nel rendere unico quello che stiamo facendo.

Diventa allora più rilevante vedere come Tolstoj e Dostoevskij ci aiutano a esprimere qualcosa che sentiamo nostro: “permetterò che la conoscenza dei miei predecessori mi aiuti a dare forma a quello che sto facendo?”.

Hilflosigkeit

C’è una dimensione singolare del Reale che viviamo, ciascuno vive il suo Reale però questa è un’esperienza universale.

Ciò che rende ciascuno di noi davvero unico è il tragitto per giungere alla stessa (universale) condizione Reale.

Il Reale è singolare per ciascuno, ma tutti viviamo la condizione del Reale.

L’esperienza della testimonianza è fondamentale affinché di generazione in generazione il linguaggio, il sapere, anche quello dei testi biblici, possa stringere anche se con una forma diversa (singolare per ciascuno) la stessa dimensione Reale, lo stesso punto di inermità (Hilflosigkeit) che ci rende umani.

La testimonianza è sempre singolare perché non mette in gioco l’identificazione ma l’assunzione del vuoto centrale.

Durante la testimonianza non avviene la consegna di un esempio o di un “io ideale” che darà integrità all’immagine di sé stessi. Allo stesso tempo nella vera testimonianza non viene neanche trasmesso un Ideale dell’Io che “modellerà le relazioni del soggetto con il suo oggetto” [J. Lacan (1957-1958), Il seminario, Libro V, Le formazioni dell’inconscio, ed. it. a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2004, p. 311. È importante ricordare che nell’insegnamento di Lacan l’io ideale viene collocato sul piano Immaginario mentre l’Ideale dell’io sul piano Simbolico].

Quando diciamo che la testimonianza è sempre singolare – perché non mette in gioco l’identificazione ma l’assunzione del “vuoto centrale” – vogliamo evidenziare che la testimonianza apre la possibilità di ereditare qualcosa che riguarda quella parte di noi che nessun significante dell'Altro può nominare.

La testimonianza che funziona è sempre Reale, è una testimonianza che supera l’Ideale dell’Io e produce un effetto di Reale nel soggetto a cui si rivolge. La vera testimonianza fa fare esperienza del Reale e non è solo un’esperienza attraverso cui decodificare il proprio vissuto.

Simbolico e Reale

La vera testimonianza è Reale perché mostra qualcosa che nessuna lettura potrà mai del tutto saturare. Per tal ragione dobbiamo distinguere la testimonianza simbolica dal testimoniare il Reale: nel primo caso si tratta della testimonianza di una figura particolare che deve essere raccolta, scritta, raccontata; nel secondo caso è in gioco l’atto della testimonianza che ha bisogno di essere vivificato ogni giorno.

Il testimone fa cadere le identificazioni, mostra come l’atto singolare in cui ci si assume la responsabilità del proprio desiderio produca quella che Lacan chiamava “destituzione soggettiva”.

Nel testimoniare il Reale il testimone fa cadere le sue identificazioni e ci mostra fino a che punto sia disposto a trovare la propria realizzazione facendo a meno delle identificazioni e consegnandosi al destino che verrà disegnato dal suo atto desiderante. Nella testimonianza singolare non è lo stimolo all’identificazione il perno del movimento soggettivo ma la destituzione di ogni rivestimento identificatorio.

È incredibile allora il posto che viene dato dagli esseri umani alla testimonianza singolare. Non possiamo non osservare quanto nei gruppi umani la testimonianza singolare venga trasformata e rovesciata in un modello a cui ispirarsi. In questo destino rappresentazionale che viene dato alla testimonianza singolare viene promosso ciò che quella testimonianza voleva sospendere, almeno per un po’, almeno in quel momento di silenzio in cui sprovvisti dell’appiglio identificatorio offerto dall’Altro possiamo avvenire nel Reale che noi siamo.

Seguendo la prospettiva tracciata fin qui possiamo individuare due modi di essere eredi:

  • Il primo modo, assolutamente da non svalorizzare o minimizzare, è quello simbolico che passa per l’Ideale dell’Io.
  • Il secondo modo riguarda invece la singolarità e il Reale.

L’eredità simbolica trova perno nell’identificazione, mentre l’eredità singolare nella destituzione soggettiva. Nell’identificazione il testimone è per l’erede ancora un modello a cui ispirarsi per navigare. Nella seconda modalità il testimone incide nella vita dell’erede perché lo spinge ad attraversare l’assenza di un modello. Con l’identificazione il testimone dà un modello, con l’effetto di Reale il testimone toglie il riferimento al modello.

L’identificazione copre il Reale, la testimonianza singolare lo scopre.

Nella testimonianza singolare viene donata l’assenza di un modello, nel testimoniare viene mostrato quel desiderare che non aspira a diventare un modello ma che interrompe ogni possibile appiglio al modello. Il testimoniare è un tagliare che fa fare esperienza del Reale.

Eredità senza identificazione

Potremmo allora distinguere un’eredità che passa per la via dell’identificazione e una seconda modalità in cui diventiamo co-eredi di chi ci ha trasformato con la sua testimonianza singolare. Non diventiamo come il modello, non arriviamo a possedere le sue insegne o i suoi tratti desideranti.

Ereditare vuol dire giungere alla destituzione soggettiva, confrontarsi con la notte del Getsemani senza potersi appellare all’ausilio dell’Altro.

Nella testimonianza simbolica il testimone ci offre un modello a cui poter assomigliare (in modo immaginario e/o simbolico), mentre nella testimonianza singolare ci fa dono – con il suo atto desiderante – della sospensione dell’identificazione.

Da questo punto di vista essere un vero erede non è una condizione che si acquisisce, non è l’acquisizione di un titolo che scrive la nostra presenza Reale nel Simbolico. Anzi, il vero erede compie il movimento opposto, va dal Simbolico al Reale perdendo gli ormeggi dell’identificazione, anche dell’identificazione al ruolo di erede.

Credersi erede è un’impostura perché nell’atto di ereditare siamo costantemente spiazzati.

Un vero erede non eredita niente se non l’atto di ereditare.

Si è quindi eredi solo a condizione di lasciarsi spostare ogni volta da ogni eventuale identificazione che ci può tentare. Ogni vero erede compie un movimento di destituzione soggettiva diventando così co-erede della perdita dell’identificazione.

Destituzione soggettiva

Lacan dice che alla fine di un’analisi un soggetto incontra una destituzione soggettiva, un soggetto fa i conti con il suo essere un piccolo scarto.

La psicoanalisi non propone un Io forte e performante ma la destituzione soggettiva: si attraversa un’esperienza psicoanalitica per riuscire a compiere la propria disidentificazione.

Lacan dice che se dal confronto con quella condizione di inermità non c’è entusiasmo, allora non c’è desiderio dell’analista.

Il desiderio dell’analista è fare incontrare in maniera affermativa quell’esperienza che chiamiamo disidentificazione, come chance per lasciare sempre aperta una possibilità di cambio di rotta o di risentire la vita perché tutte le volte che la nostra vita si adagia sul modello, tutte le volte che noi seguiamo l’identificazione, non stiamo più seguendo la vita, stiamo seguendo un modello, non stiamo più vivendo quello che Daniel Stern chiama “momento presente”.

Elvio Fachinelli paragonava l’esperienza della creazione artistica, dei mistici e di fine analisi a una frana inesorabile dell’Io. E potremmo aggiungere: frana inesorabile dell’identificazione tracciata dall’Ideale dell’Io.

Nei gruppi

Nei gruppi difficilmente può avvenire l’incontro con il silenzio come significante assoluto, cioè quel il silenzio che non rimanda ad altro se non a sé stesso.

Nei gruppi tendenzialmente questo tipo di esperienza può angosciare, il gruppo può essere qualcosa che fornisce un’identificazione o un’appartenenza che protegge dal silenzio che evoca il Reale. Certo, ci si può incontrare in gruppo ma un conto è incontrarsi e cercare un’identificazione che mi protegga dal silenzio e un conto è incontrare il gruppo a partire da quel silenzio. Jung diceva che non ci si incontra se non da soli, come solitudini. L’incontro tra solitudini è immaginare “che la via da te a me / Non è uguale alla via / Da me / A te” [Devo al collega e amico Aldo Becce la conoscenza di questi versi di Mak Dizdar (poeta bosniaco, 1917-1971). La citazione proviene dal libro Bon voyage (Nuova Dimensione, Portogruaro 2003) dello scrittore bosniaco Božidar Stanišić].

Il vuoto che ereditiamo

Ogni vero erede compie un processo di soggettivazione della testimonianza singolare. Essere eredi consiste essenzialmente nell’ereditare niente. Se un erede si mette nella posizione dell’aver ereditato qualcosa allora la trasmissione intergenerazionale si interrompe perché l’eredità non è un processo di acquisizione di titoli o ruoli.

Come scrive Recalcati: "Ciascuno di noi è orfano, ma ciascuno di noi è erede: dobbiamo ogni volta inventare la nostra eredità. L’eredità non consiste semplicemente nel ricevere dall’altro i geni, i beni, le rendite, le proprietà, i regni come Telemaco. Pochi di noi hanno ricevuto regni, di solito riceviamo debiti e a volte gli scarti. Noi tutti in quanto orfani abbiamo ricevuto niente; nell’eredità c’è sempre un fondo di niente" [M. Recalcati, La forza del desiderio, Qiqajon, Magnano (Bi), 2014, p. 34].

Diventare eredi non consiste nell’incardinarsi in un posto, anzi si impara a sentirsi a casa nel non ritrovarsi.

Funziona così anche per il vero testimone che nell’atto di testimoniare non si crede un testimone, non fa la parte del testimone, se lo facesse diventerebbe un personaggio.

Essere testimoni o eredi non consiste nell’appropriazione di qualche tratto di personalità, il testimoniare e l’ereditare esprimono piuttosto l’eccedenza della dimensione vivente. Per tal ragione possiamo considerare il testimoniare e l’ereditare come delle esperienze intermittenti che si realizzano come un dono.

Un vero erede non estingue il debito verso il testimone ma allarga il debito in maniera smisurata come quando ama.

Una volta che si inizia ad amare si spalanca davanti qualcosa d’infinito, di insaturo, qualcosa che si segue senza sapere come né perché. Nell’ereditare non si accede a una posizione dove ci si installa dicendo “sono erede per queste ragioni qui…” e non si trova neanche una motivazione originaria che giustifichi o spieghi la causa dell’ereditare.

Si eredita come si ama e infatti nel vero amore non c’è una causa che fonda l’atto di amare perché è l’atto di amare che fonda l’amore.

La testimonianza singolare introduce un effetto di Reale che genera qualcosa di nuovo che non è giustificato dalla ripetizione dei significanti che hanno marchiato il soggetto. Ricondurre la testimonianza e l’eredità a una causa esprime un voler catalogare l’esperienza del Reale come un caso particolare di un Simbolico già scritto.

La testimonianza se funziona è sempre Reale e ciò vuol dire che un testimone può funzionare solo se non fa del suo atto una ripetizione del marchio o una ripetizione degli scritti, occorre semmai che mostri qualcosa che è dell’ordine dell’atto dello scrivere. È questo l’effetto di Reale.

Ereditare consiste allora nel lasciarsi scrivere dal movimento della testimonianza singolare.

A volte, per ereditare, occorre lasciarsi scrivere mentre si scrive. E così ogni eventuale progetto di scrittura che abbia come argomento l’inconscio, l’eredità e la testimonianza può diventare una forma dell’ereditare se l’atto stesso della scrittura sorge in risonanza all’effetto di Reale, in risonanza a quella vita che la testimonianza ha generato in noi.

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Sul tema della della testimonianza, tra i libri di Nicolò Terminio, si rimanda a:

   

Psicoterapeuta Torino
Nicolò Terminio, psicoterapeuta e dottore di ricerca, lavora come psicoanalista a Torino.
La pratica psicoanalitica di Nicolò è caratterizzata dal confronto costante con la ricerca scientifica più aggiornata.
Allo stesso tempo dedica una particolare attenzione alla dimensione creativa del soggetto.
I suoi ambiti clinici e di ricerca riguardano la cura dei nuovi sintomi (ansia, attacchi di panico e depressione; anoressia, bulimia e obesità; gioco d’azzardo patologico e nuove dipendenze) e in particolare la clinica borderline.

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