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Il trauma ci fa sentire che c’è un’urgenza della vita che ci pone in una condizione di oggetto.

Trauma, dissociazione e fantasma inconscio

Ci sono diverse ragioni per sottolineare l’utilità del libro Declinazioni del trauma. Esiti destrutturanti e tentativi di simbolizzazione (2023) di Laura Porta.

Innanzitutto questo testo è scritto con uno stile che va oltre la matrice psicoanalitica lacaniana perché l’autrice non mostra alcun compiacimento verso il gergo lacanese. 

La proposta concettuale e clinica di Laura Porta si muove lungo tutta la storia della psicoanalisi e non rimane soltanto nella linea freudiana-lacaniana, ma avvia un dialogo anche con quegli sviluppi della tradizione psicodinamica che si sono allontanati dalla prospettiva di Freud.

Per certi versi, questo testo si configura come un trauma, una frattura che smuove l’immobilismo di certi dogmatismi psicoanalitici che alimentano tante scissioni e rivendicazioni di unicità. La Porta mette in dialogo diverse prospettive e allo stesso tempo ne sottolinea le differenze, consentendo così al clinico di vedere le diverse declinazioni del trauma.

Dissociazione e rimozione

Nel suo lavoro l’autrice parte dall’opera di Freud per giungere fino alle prospettive della psicoanalisi contemporanea, esplorando in profondità anche quei contributi di ricerca che provano a costruire dei ponti tra psicoanalisi e neuroscienze.

In estrema sintesi, potremmo dire che la Porta intreccia due filoni di studi che nella psicopatologia di orientamento psicodinamico si sono sviluppati su due binari paralleli: da un lato la tradizione che prende le mosse dalla prospettiva Freud e Lacan e dall’altro le prospettive che trovano le loro basi nelle teorizzazioni di Janet e Ferenczi.

Oggi chi si occupa della clinica del trauma e della dissociazione, e segue l’orientamento psicodinamico di Janet, mette in discussione la metapsicologia di Freud e in qualche modo la considera di scarso valore perché ritiene che non spieghi e non consenta di comprendere i problemi relativi alla clinica della dissociazione.

A volte però gli stessi clinici che contestano il ruolo fondamentale della metapsicologia freudiana indicano con il termine dissociazione delle esperienze che non corrispondono alla disaggregazione delle funzioni della coscienza di cui parlava Janet, ma si tratta piuttosto di esperienze che chiamano in causa la rimozione, quella rimozione di cui si occupava in modo puntuale e preciso Freud.

Il panorama attuale sembra quindi apparentemente diviso tra coloro che si proclamano seguaci di Freud e che mettono in valore il meccanismo della rimozione e coloro che invece seguono Janet e si occupano delle esperienze dissociative. Poi però in pratica le cose si complicano perché a volte il confine e la distinzione clinica tra dissociazione e rimozione sembra sfumare: i casi clinici affrontati secondo la logica della singolarità, uno per uno, mostrano infatti una problematicità che non si lascia risolvere attraverso rigidi schematismi.

Trauma reale e fantasmatizzazione del trauma

Il lavoro di Laura Porta risulta utile perché ci permette di affrontare questi dilemmi teorici e clinici focalizzando l’attenzione sulle differenti declinazioni del trauma. L’autrice distingue sia le tipologie di traumi sia i meccanismi di difesa specifici che possono essere messi in atto rispetto ai traumi.

Nel libro non si parla dunque del trauma in modo generalizzato, come se fosse una categoria ombrello che copre l’eterogeneità delle esperienze e la complessità della clinica, ma viene distinto il “trauma reale”, il trauma che è avvenuto realmente nella storia del soggetto, dal “trauma fantasmatico”.

Il trauma reale non lascia scampo alle possibilità del soggetto di costruire uno scenario interiore e un corteo di simboli con cui dare significato a quello che è successo.

Il trauma fantasmatico non nega l’esistenza di un trauma realmente accaduto e si configura come una sorta di riconfigurazione simbolica dell’evento realmente accaduto.

Il trauma reale azzera o riduce drasticamente le possibilità di simbolizzazione del soggetto, il trauma fantasmatico si presenta invece come il frutto di un’elaborazione inconscia del soggetto.

Potremmo tradurre la differenza tra queste due declinazioni del trauma sottolineando da un lato il trauma reale e dall’altro la fantasmatizzazione del trauma.

Nel primo caso la dimensione simbolica viene compromessa nel suo sorgere, nel secondo caso invece il soggetto riesce ad appoggiarsi alle possibilità offerte dall’ordine simbolico per transitare da una posizione di oggetto a una di soggetto.

In tal senso, la fantasmatizzazione del trauma è una risposta del soggetto e si configura come un balbettio di soggettivazione dell’esperienza del Reale.

Grazie a questa distinzione la Porta stimola l’attenzione dei clinici che non si accorgono dell’importanza di una certa clinica del trauma e della dissociazione, dove cioè il trauma è effettivamente avvenuto e dove bisogna lavorare affinché il soggetto possa umanizzare la sua vita. A questo proposito sono molto delicate e preziose le pagine che l’autrice dedica all’ascolto del silenzio delle persone traumatizzate.

Diagnosi differenziale

La traduzione simbolica del silenzio delle persone traumatizzate richiede la capacità, da parte del clinico, di sostare di fronte al Reale della clinica senza precipitarsi in una formulazione diagnostica. La Porta mette in guardia rispetto al rischio di affrettarsi in una diagnosi strutturale che, per esempio, in ambito lacaniano confronta la nevrosi e la psicosi.

Il paziente traumatizzato presenta spesso infatti alcuni sintomi dissociativi, come la depersonalizzazione e la derealizzazione, che non vanno immediatamente riferiti alla logica della psicosi.

Sebbene depersonalizzazione e derealizzazione siano dei disturbi dell’ipseità, che riguardano la difficoltà del soggetto nel sentirsi soggetto d’esperienza, non sono sempre riconducibili alla struttura psicotica, cioè non sono sempre indice della forclusione del Nome del Padre.

La clinica del trauma reale è caratterizzata da un eccesso che ha bloccato ogni possibilità di simbolizzazione.

In maniera rapida, potremmo dire che la logica della dissociazione è la logica della disaggregazione dei significanti.

Se leggiamo alcuni contributi di Janet possiamo notare che il concetto di dissociazione indica la disaggregazione di quelle funzioni psichiche che permettono la possibilità di simbolizzare, cioè di costruire una trama di significanti. In questi casi il lavoro clinico consiste allora nel creare i presupposti perché ci possa essere la simbolizzazione e, in situazioni ancor più gravi, anche l’involucro narcisistico.

Il trauma reale comprende esperienze molto diverse tra loro: il lutto, l’abbandono, l’odio da parte dell’altro, l’abuso, la confusione delle lingue tra tenerezza ed erotismo (a questo proposito l’autrice fa diversi riferimenti a Ferenczi e, in particolare, al saggio sulla “confusione delle lingue”). I traumi reali scaturiscono anche da fenomeni naturali e ancor di più da quegli accadimenti collettivi che negano l’umanità di chi ne viene travolto. Sono momenti dove scompare ogni possibilità di simbolizzazione e il lavoro del clinico è quello di restituire – o, forse, potremmo dire “istituire”? – una trama simbolica per ciò che interrompe la possibilità di costruire ogni trama.

Si tratta di un lavoro che cerca di portare la luce della parola in un’esperienza che sovrasta ogni possibilità di rappresentazione del soggetto. Quindi non bisogna subito ricondurre gli eccessi del Reale traumatico alla struttura psicotica, occorre piuttosto sapersi mettere in ascolto di un vissuto che ha annichilito la possibilità del soggetto di sentirsi soggetto d’esperienza.

La dimensione del fantasma

Con il suo libro la Porta apre anche un orientamento diverso per quelle prospettive psicodinamiche che privilegiano in modo esclusivo il trauma reale.

Nel lavoro clinico è importante uscire da un paradigma che concepisce il trauma solo nella prospettiva del rapporto tra la vittima e il carnefice, tra l’evento traumatico e il soggetto che lo subisce.

L’autrice inserisce quella che chiama una “terza dimensione”. E in questo frangente convoca il concetto di fantasma riprendendo l’opera di Freud e l’insegnamento di Lacan.

Il fantasma è l’interpretazione che il soggetto dà al suo posto nella relazione con l’Altro.

Il fantasma è la costruzione che il soggetto elabora riguardo al posto che ha occupato nella relazione con l’Altro. Quindi per il soggetto c’è trauma reale quando viene azzerata la possibilità di costruire il proprio fantasma. Il trauma reale segna l’impossibilità di costruire una propria posizione attiva, attiva nel senso che è capace di dare significato a quello che sta succedendo.

La dimensione del fantasma apre dunque la possibilità di simbolizzazione dei vissuti generati dal trauma reale.

Va sottolineato però che la costruzione del fantasma, sebbene offra al soggetto una posizione simbolica nella relazione con l’Altro, mostra una ripetitività che si traduce in rigidità. Il fantasma è uno schema interpretativo poco flessibile che rende la posizione simbolica del soggetto poco permeabile ai cambiamenti. Quindi il fantasma da un lato toglie al soggetto la sensazione angosciosa di essere in balia del trauma reale, dall’altro però lo fissa a uno schema relazionale che lascia poco spazio alla dimensione trasformativa dell’incontro.

Il fantasma fissa il nostro quadro della realtà, una rappresentazione della realtà che quando veniamo sottoposti a un trauma reale vacilla. Nell’esperienza del trauma il nostro quadro della realtà si destruttura, è come se ci trovassimo di fronte a qualcosa che squarcia il velo delle nostre rappresentazioni.

Gilles Deleuze, quando parlava del gesto filosofico, diceva che il taglio filosofico è un taglio dell’ombrello sotto cui ci ripariamo con tutte le nostre conoscenze e presupposizioni. Attraverso il taglio filosofico compare uno spiraglio che fa affiorare la luce o le tenebre da cui ci difendiamo con le nostre costruzioni simboliche. Ecco, potremmo dire che il taglio dell’eccesso traumatico si configura come un’esperienza che ci fa sentire scoperti, senza il nostro ombrello simbolico.

Il trauma ci fa sentire che c’è un’urgenza della vita che ci pone in una condizione di oggetto.

Nell’esperienza del trauma siamo improvvisamente in una condizione di oggetto e scompare ogni orizzonte di senso, ogni possibilità di dare un significato a quello che sta succedendo.

Tuttavia, nonostante lo sconvolgimento dell’esperienza del trauma, bisogna considerare che il fantasma non è sempre una buona soluzione o, perlomeno, quella definitiva.

Il fantasma permette al soggetto di ripararsi dall’eccesso del Reale, ma allo stesso tempo fissa il soggetto alla ripetitività di uno schema interpretativo. Esiste infatti una declinazione psicopatologica del fantasma che rinchiude il soggetto in una realtà troppo rigida. In questi casi allora il lavoro psicoanalitico è chiamato a perturbare quella postazione fantasmatica a partire da cui il soggetto percepisce sé stesso e gli altri.

Di fronte alla ripetizione dello schema fantasmatico l’esperienza del trauma – intesa non come annichilimento del soggetto, ma come discontinuità che interrompe la ripetizione di una trama – diventa necessaria perché apre l’opportunità per riformulare in modo nuovo uno schema diventato troppo rigido.

Il fantasma è un tentativo di soggettivazione dell’esperienza del trauma che può però chiudere la creatività del soggetto.

Quindi nella cura si tratta di introdurre una discontinuità affinché la storia del soggetto possa aprirsi al cambiamento e andare oltre ciò che è stato fissato dal fantasma.

Nella pratica clinica si tratta di scombussolare la fissità del fantasma e si apre la questione su come introdurre la funzione del trauma (discontinuità, taglio) come una nuova opportunità.

È questa la scommessa di una clinica che non vuole leggere il trauma soltanto come un evento Reale, come un eccesso non simbolizzabile, ma anche come un’occasione per una nuova costruzione simbolica.

In questo snodo teorico e clinico la Porta tiene insieme due tradizioni psicodinamiche, quella di Freud e Lacan e quella di Janet e Ferenczi, e realizza questo intreccio presentando anche dei casi clinici. In particolare, nel caso di Martina vediamo come il fantasma sia un’occasione di protezione dal trauma perché consente al soggetto di costruire una propria posizione rispetto al trauma reale.

Autobiografia e soggettivazione

Alla fine del libro troviamo un ulteriore passo in avanti in cui Laura ci mostra, attraverso lo studio di un contributo autobiografico della filosofa Annie Leclerc, come possa avvenire la trasformazione simbolica del trauma reale.

Annie Leclerc riesce a simbolizzare la sua esperienza di abuso da parte di un pedofilo e, grazie alla scrittura autobiografica, compie non solo la ricostruzione dei frammenti della memoria, ma anche un superamento della posizione egoica.

Quindi nella scrittura autobiografica non viene data preminenza a un Ego che prende il comando della situazione traumatica, non avviene una riabilitazione della propria padronanza sull’eccesso del trauma.

Nella scrittura autobiografica si tratta piuttosto di lasciarsi andare alla scrittura e allo stesso tempo, grazie a questa condizione di abbandono, è possibile recuperare una posizione attiva di fronte al trauma. È questa la speranza la Porta rileva nella testimonianza di Annie Leclerc.

La scrittura autobiografica apre allora la possibilità di lasciarsi andare per lasciarsi scrivere dal trauma, ma non per ripetere l’assoggettamento annichilente del trauma, quanto piuttosto per assumere una posizione attiva e creativa di fronte al trauma.

Anche in questo capitolo finale dedicato alla scrittura autobiografica la Porta ci permette di osservare l’importanza di una clinica dell’uno per uno, che pone cioè attenzione al caso per caso, alla singolarità.

Parlare delle declinazioni del trauma vuol dire che ogni trauma va ascoltato come unico, ma per poterlo cogliere nella sua unicità è necessario un modello teorico di riferimento, un modo per fare posto all’unicità. È in questa attenzione al caso per caso che ritroviamo il punto di annodamento tra la singolarità della voce dell’autrice e l’utilità della sua proposta teorica e clinica.  

 
Per qualche spunto in più guarda questo video sullo sciame borderline.

 

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Psicoterapeuta Torino
Nicolò Terminio, psicoterapeuta e dottore di ricerca, lavora come psicoanalista a Torino.
La pratica psicoanalitica di Nicolò è caratterizzata dal confronto costante con la ricerca scientifica più aggiornata.
Allo stesso tempo dedica una particolare attenzione alla dimensione creativa del soggetto.
I suoi ambiti clinici e di ricerca riguardano la cura dei nuovi sintomi (ansia, attacchi di panico e depressione; anoressia, bulimia e obesità; gioco d’azzardo patologico e nuove dipendenze) e in particolare la clinica borderline.

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